USA: 1200 miliardi di dollari per le infrastrutture

Il Presidente americano Joe Biden ha firmato lunedì scorso il piano di rilancio delle infrastrutture, secondo molti analisti il piano di spesa più ambizioso in questo campo degli ultimo 30 anni. La legge stanzia complessivamente 1200 miliardi per opere quali autostrade, ponti, ferrovie, tra cui 62 miliardi destinati al Dipartimento dell’Energia per favorire “un’equa transizione energetica verso le basse emissioni”. Secondo Arshad Mansoor, CEO dell’Electric Power Research Institute (EPRI) la legge lancia un segnale forte a favore della decarbonizzazione e dell’espansione del settore elettrico, fondamentali per il raggiungimento degli obiettivi climatici. La legge stanzia anche 8.5 miliardi di dollari per il settore nucleare: 6 miliardi di dollari di finanziamenti per evitare la chiusura prematura delle centrali nucleari in servizio e 2.5 miliardi per la ricerca e la dimostrazione industriale dei reattori avanzati. Sul primo punto, Mark Nelson, analista e direttore del Radiant Energy Fund, afferma che il governo si muove tardi ed inefficacemente. Il recente rally dei prezzi del gas naturale ha migliorato i margini di competitività della produzione nucleare rendendo per ora il provvedimento superfluo, mentre il meccanismo di finanziamento previsto, a suo parere eccessivamente complicato, lo renderebbe di difficile fruizione qualora ce ne fosse il bisogno. Il finanziamento infatti viene erogato alle centrali che, oltre a soddisfare i giusti requisiti di sicurezza, possono certificare di usare combustibile made in USA, criterio alquanto restrittivo dato che negli ultimi decenni gli Stati Uniti si sono progressivamente disimpegnati dalla produzione di combustibile nucleare. Più positivo il commento della compagnia X-Energy riguardo ai finanziamenti al programma di ricerca sui reattori avanzati, che la vedono, insieme a Terrapower, tra i principali beneficiari. Lo stanziamento, afferma il management della compagnia, dimostra la ferma volontà del governo federale di arrivare alla commercializzazione dei reattori avanzati nel minor tempo possibile. Eppure, i 2.5 miliardi stanziati su questo capitolo sono una piccola fetta se paragonati ai 10 miliardi destinati alla cattura e sequestro dell’anidride carbonica e alla riduzione delle emissioni del settore industriale o agli 8 miliardi destinati alla produzione di idrogeno verde. In conclusione, se da un lato si conferma un atteggiamento bipartisan di generico sostegno alla tecnologia nucleare da parte di Washington, i provvedimenti restano timidi e poco incisivi nel salvaguardare ed espandere la fonte di energia pulita che da sola contribuisce ad un quinto della produzione elettrica americana.

La decarbonizzazione della Sardegna può attendere

La decarbonizzazione della Sardegna slitta al 2028 per la necessità di realizzare un cavo sottomarino che la colleghi al continente. Il doppio collegamento sottomarino che collegherà Sardegna e Sicilia alla Penisola, denominato Tyrrhenian Link, dovrà essere difatti pienamente operativo prima che le due centrali a carbone sarde, quella di Fiume Santo e quella del Sulcis, che garantiscono insieme circa 1 GW di potenza. Il motivo è presto spiegato: essendo il carbone, assieme al gas, uno degli assi portanti della produzione elettrica dell’isola (la quale vanta il triste primato di regione più “fossile” d’Italia), senza il nuovo collegamento si provocherebbero sbilanciamenti tali da non poter garantire il limite di 3 ore annue di LOLE (Loss of Load Expectation, o perdita di potenza di carico attesa). Inoltre, se il piano di decarbonizzazione prevedesse una maggiore penetrazione di rinnovabili intermittenti (solare ed eolico), il problema di un adeguato collegamento alla rete continentale assumerebbe ancor maggior rilevanza. Il solo collegamento sottomarino è previsto costare 3,7 miliardi di euro, più o meno il costo di 1 GW di potenza nucleare (vedasi Barakah negli Emirati Arabi) e probabilmente un costo maggiore di quello atteso per i reattori modulari di piccola taglia che dovrebbero essere sul mercato tra alcuni anni e che potrebbero sostituire adeguatamente quel 1 GW di potenza dal carbone senza problemi di continuità della fornitura. Viene dunque da chiedersi per quale ragione logica l’opzione nucleare non venga presa neppure in considerazione in Sardegna. Ad eccezione dell’ostinata contrarietà della politica e dell’opinione pubblica sarda a qualsiasi cosa che faccia rima con nucleare, non vi sarebbe ragione alcuna, potendo dei piccoli reattori modulari (magari installati su aree militari dismesse, su siti industriali abbandonati o ancora meglio direttamente al posto degli impianti a carbone) adeguatamente fornire energia a basse emissioni 24 ore su 24 e 365 giorni all’anno, preservando al contempo i posti di lavoro e anzi creandone di nuovi, meglio qualificati e meglio pagati. Non è fantascienza, è la strada intrapresa, tra altri, dalla Romania, Paese evidentemente più avanzato del nostro.

Webinars UNIPI 2021-2022

Per la serie Past-students and Expert Webinars in Nuclear Engineering promossi dal Corso di laurea in Ingegneria Nucleare dell’Università di Pisa, segnaliamo i seguenti appuntamenti della seconda metà di giugno: Venerdì 12 novembre 2021 ore 15: Digital twins of PWR Steam Generators, Enrico Deri, EDF, France. Venerdì 19 novembre 2021 ore 15.30: Lessons learned from Fukushima-Daiichi: From scenarios to modelling, Luis Enrique Herranz, CIEMAT, Spain. Per maggiori informazioni visitare la pagina ufficiale.  

La battaglia di retroguardia dell’ambientalismo antinucleare

L’annuncio era nell’aria ed alla fine è arrivato: il Presidente francese Macron, parlando in diretta alla nazione, ha affermato la volontà del governo d’oltralpe di costruire nuovi reattori nucleari (che nei piani di EDF dovrebbero essere 6 per una capacità aggiuntiva di circa 10 GW). Macron ha motivato la decisione con la lenta ripresa dell’economia post-pandemica, ora gravata dalla crisi energetica che ha fatto impennare i prezzi del gas naturale e, per un effetto domino, anche quelli dell’elettricità. La decisione non riguarda solo la Francia, la quale è in procinto di assumere la Presidenza dell’Unione, infatti l’inquilino dell’Eliseo ha precisato che “questo nuovo modello di sviluppo [riduzione delle emissioni nel rispetto dell’economia e della sovranità tecnologica degli Stati] è quello in cui crede sia per la Francia che per l’Unione Europea. Chiaro il riferimento all’inserimento del nucleare nella Tassonomia della finanza sostenibile, caldeggiato da 10 Paesi membri visto da molti commentatori come ormai prossimo. Gli echi politici di questo rinato dibattito sul nucleare si sono avvertiti anche in Italia, dove alle prime timide voci possibiliste o apertamente favorevoli (il nucleare è sempre rimasto nel cuore di un terzo degli Italiani, anche nel 2011 nell’immediatezza dell’incidente di Fukushima) hanno fatto seguito, più rumorose, le pronte barricate ideologiche dei movimenti ambientalisti e di neonati comitati e partitini, che già evocano nuovi referendum già al solo pensare che qualcun’altra in Europa voglia giovarsi della fonte di energia che noi abbiamo, per due volte, rigettato. Sebbene non vi sia nulla di nuovo nella posizione anti nucleare di gran parte dei movimenti ambientalisti italiani, la novità è costituita dal fatto che tali posizioni oggi sono apertamente anti scientifiche e necessitano spesso per sostenersi e far presa nell’opinione pubblica di una buona dose di cherry picking quando non proprio di spudorate bugie. La battaglia antinucleare si è nutrita fin dagli anni ’70 di terrorismo comunicativo, avvallato anche dal contributo di romanzi e pellicole cinematografiche di successo, cui l’industria nucleare ha risposto prevalentemente trincerandosi dietro freddi comunicati stampa, quando non addirittura rinunciando alla replica. Ma oggi, mentre il mondo, impegnato nella lotta sul duplice fronte della risposta alla pandemia e della mitigazione del cambiamento climatico, guarda con sempre maggior apertura e fiducia alla scienza, certe posizioni appaiono decisamente fuori dalla realtà. E così che, alla litania del nucleare pericoloso e nocivo per l’ambiente, sconfessata non solo dai dati ma anche dai più autorevoli studi scientifici, si aggiungono le frottole. “Nucleare? Costi fuori mercato. La fusione e i piccoli reattori? Promesse, rimaste tali sulla carta” ripete Silvestrini, presidente del Kyoto Club, su tutti gli organi di informazione che gli concedono spazio. Parla di costi del nucleare che, unica tra le fonti a basse emissioni, non ha mai ricevuto supporti, mentre gli incentivi, per sua stessa ammissione “forse troppo generosi” erogati da oltre un decennio alle rinnovabili intermittenti, ne hanno visto fermarsi il contributo totale al 37% di energia prodotta (di cui però la parte preponderante la gioca ancora l’idroelettrico).  Inoltre si omette di dire che il nucleare costa perché sconta un capitale iniziale elevato che include anche il ripristino del sito a fine vita (decommissioning), mentre i costi di fotovoltaico ed eolico e dei loro rifiuti, hanno sì mostrato (anche per gli incentivi di cui sopra) un trend in forte calo, ma sono anche molto volatili e tutt’altro che certi qualora si andassero a considerare anche i costi di sistema connessi.  Una centrale nucleare inoltre dura tra i 60 e gli 80 anni (un impianto eolico non oltre 25) ed i costi fissi iniziali del nucleare si ammortizzano in un terzo della sua vita attiva.  Quanto a fusione e piccoli reattori, non sono affatto “promesse sulla carta”. Sui progetti di primi dimostratori (impianti in rete) di  “fusione nucleare” sono stati raccolti (in Europa) 2 miliardi di investimenti “privati”. Difficile che un privato investa su una “promessa sulla carta”. Quanto ai piccoli reattori, si calcolano oltre 70 modelli allo stato di progetto avanzato, oltre 12 in sviluppo (sul mercato tra due o tre anni), alcuni che entreranno sul mercato tra pochi mesi e altri già dispiegati. Altro che “promessa sulla carta”, il nuovo nucleare è già una poderosa realtà. E’ ecologico, sicuro e fornirà energia abbondante. Senza di esso possiamo scordarci la transizione e gli obiettivi climatici.

Nucleare: i Nobel e la verità

Pubblichiamo la lettera a Il Foglio del Presidente di Associazione Italiana Nucleare Umberto Minopoli in risposta alle affermazioni del prof. Giorgio Parisi in merito all’energia nucleare. Il Nobel Parisi (Corriere della Sera) fa due affermazioni sul nucleare, sorprendentemente, sciatte e distoniche con la sua competenza. Primo: “il nucleare attuale, dice Parisi, è ancora quello dell’incidente di Chernobyl”. Falso. Quello di Chernobyl era un tipo di impianto esistente in pochissimi esemplari: 8, e tutti solo nella ex URSS e nei suoi satelliti, su 542 (allora) impianti nucleari nel mondo. E’ accertato che l’incidente ucraino del 1986, la più studiata e analizzata (dall’Onu e dalle sue agenzie di esperti) delle catastrofi artificiali umane, fu dovuto a due fattori, esclusivi e irripetibili in altri impianti e fuori dal contesto sovietico: le specifiche tecniche uniche di quell’impianto, pensato a scopo bellico (esempio, il “coefficiente positivo”, che generò l’incontrollabilità o l’assenza di contenimento esterno); l’errore umano ( che rasentò la follia), inconcepibile e irripetibile, fuori dal contesto di governance di quel regime.  Seconda affermazione: “il nucleare si può fare, afferma Parisi, solo in zone lontane da persone. Quindi non nell’urbanizzata Italia”. E’ un’affermazione, mi permetto, un po’ alla Catalano, per un Nobel. Ci sono (oggi) 442 impianti nucleari (e 54 in costruzione) in 33 paesi del mondo. Tra i più urbanizzati della Terra. E non in deserti disabitati. Per localizzare una centrale nucleare, strano che Parisi lo ignori, si devono rispettare standards, norme precise, regole e obblighi di distanza, validi e controllati in tutto il mondo. Da autorità internazionali legittimate allo scopo. Anche “l’urbanizzata” Italia, per 20 anni, ha avuto 4 centrali nucleari operative (dei cui MW oggi avremmo avuto un gran bisogno). I nuovi impianti avanzati di cui oggi si parla (che, il professore controlli, non sono più dei “disegni” ma macchine pronte che stanno entrando sul mercato), addirittura, migliorando la sicurezza, migliorano i criteri della distanza. Il professor Parisi dovrebbe ricordare che nell’urbanizzata Italia i morti (a centinaia) per incidenti in impianti industriali o energetici sono stati causati, invece, da dighe, centrali elettriche fossili, impianti chimici. Morti che, se fossero valse le regole di sicurezza di una centrale nucleare, non ci sarebbero stati. Anche i Nobel avrebbero il dovere della verità.