La scienza lo ha già definitivamente sdoganato come fonte sicura e pulita, ma il tabù del nucleare, costatogli anche la rimozione lessicale dalle pratiche mediche più utili e virtuose (non per brevità si dice risonanza magnetica, omettendo “nucleare”), è duro a morire, complici consolidate posizioni ideologiche ostili e paure immotivate che, come vediamo nel caso dei vaccini, vengono facilmente instillate e manipolate in una popolazione, come quella italiana, con il tasso di alfabetizzazione scientifica tra i più bassi nel mondo industrializzato.
Eppure, quasi sottovoce e a volte per mezzo di equilibrismi dialettici e di ricercate parafrasi, di energia nucleare si sta tornando a parlare anche tra i politici, notoriamente la categoria più restia a prendere posizioni che possano anche lontanamente urtare la sensibilità pubblica, per quanto sacrosante.
Se anche il Tg1 delle 20 parla di piccoli reattori “mobili” (la “m” in SMR starebbe per piccoli reattori “modulari”, small modular reactors in inglese, ma accontentiamoci), è segno che qualcosa effettivamente si muove.
Ignorare il nucleare sta infatti divenendo sempre più come ignorare il proverbiale elefante nella stanza, e la stanza questa volta è quella dei capi di governo mondiali, riuniti prima nel G20 di Roma e poi al COP26 di Glasgow.
C’è chi obietterà che i leaders mondiali non stanno finalmente ascoltando la scienza (come auspicato dalla giovane Greta Thunberg, sebbene lei sia la prima a razzolare male), ma hanno soltanto paura di mettere mano al portafoglio vista la crisi del prezzo del gas naturale, fino a ieri considerato paladino della transizione energetica a braccetto con le rinnovabili intermittenti cui funge da stampella.
Sarà probabilmente così, e non tutti i mali vengono per nuocere, come rilevato da Fatih Birol, direttore esecutivo della IEA, se questa crisi dei prezzi ha riacceso l’attenzione politica sul nucleare. Parlando al COP26, Birol ha infatti ricordato, citando un recente rapporto dell’agenzia da lui guidata, che il raggiungimento degli obiettivi climatici richiede un raddoppio (al 2050) della capacità nucleare oggi esistente. Birol ha aggiunto che la costruzione di nuovo nucleare non può essere sostenuta solo dalla Cina e altri Paesi asiatici, ma deve coinvolgere anche l’Europa e il Nord America, magari proprio attraverso l’introduzione sul mercato degli SMR, che dovrebbero essere progetti meno lunghi e costosi e maggiormente appetibili all’opinione pubblica.
Gli fa eco un determinato Rafael Mariano Grossi, Direttore Generale della IAEA, che sempre a Glasgow si dice convinto che il nucleare troverà finalmente il posto che gli spetta nel novero della Tassonomia europea degli investimenti sostenibili. Circa metà dei Paesi UE, Francia in testa, usa o ha intenzione di usare il nucleare in futuro per abbattere le proprie emissioni senza abbattere le proprie economie. Uno schieramento che sarebbe difficile ignorare per il capriccio di altri Paesi, Germania in testa, che invece stentano a ridurre le emissioni in atmosfera basandosi esclusivamente su solare ed eolico.
L’Italia per ora è attendista (ed è già positivo, avrebbe potuto schierarsi con la Germania, memore delle proprie tradizioni), ma qualche segnale di apertura al nucleare arriva: dopo le dichiarazioni possibiliste di Cingolani, anche il ministro Giorgetti (da Washington) ha detto che “è ora di cominciare a discutere di nucleare pulito”.
Associazione Italiana Nucleare (AIN), dal canto suo, ha inviato una lettera a tutti gli europarlamentari italiani invitandoli ad adoperarsi per l’inclusione del nucleare nella tassonomia, ed alcuni hanno già inviato un riscontro positivo dicendosi sensibili all’argomento e condividendo le osservazioni esposte.
“Non c’è un legame immediato tra la battaglia per il nucleare nella tassonomia e il suo futuro ritorno in Italia”, avverte Umberto Minopoli, presidente di AIN, sulle pagine del Secolo XIX. Tuttavia la tassonomia è un meccanismo necessario per garantire finanziamenti vitali al settore, anche alle industrie italiane che vi operano con ruoli di eccellenza. Minopoli dunque auspica che il Governo italiano si schiera dalla parte della Francia e vada anche oltre, individuando degli strumenti legislativi per il supporto della filiera nucleare italiana al fine di mantenerne la competitività sulla scena internazionale.
A chi infine obietta che il nucleare sia la strada sbagliata poiché richiede tempi di costruzione troppo lunghi e competenze ormai disperse nel nostro Paese, Minopoli risponde che la media dei tempi di costruzione di nuovi reattori è di 5 anni, i cantieri di EPR (Francia e Finlandia) in Europa rappresentano una eccezione e l’Italia continua a vantare esperti del settore e a formare giovani competenti nel settore nucleare, che trovano impiego purtroppo prevalentemente all’estero.