La decarbonizzazione della Sardegna può attendere

La decarbonizzazione della Sardegna slitta al 2028 per la necessità di realizzare un cavo sottomarino che la colleghi al continente. Il doppio collegamento sottomarino che collegherà Sardegna e Sicilia alla Penisola, denominato Tyrrhenian Link, dovrà essere difatti pienamente operativo prima che le due centrali a carbone sarde, quella di Fiume Santo e quella del Sulcis, che garantiscono insieme circa 1 GW di potenza. Il motivo è presto spiegato: essendo il carbone, assieme al gas, uno degli assi portanti della produzione elettrica dell’isola (la quale vanta il triste primato di regione più “fossile” d’Italia), senza il nuovo collegamento si provocherebbero sbilanciamenti tali da non poter garantire il limite di 3 ore annue di LOLE (Loss of Load Expectation, o perdita di potenza di carico attesa). Inoltre, se il piano di decarbonizzazione prevedesse una maggiore penetrazione di rinnovabili intermittenti (solare ed eolico), il problema di un adeguato collegamento alla rete continentale assumerebbe ancor maggior rilevanza. Il solo collegamento sottomarino è previsto costare 3,7 miliardi di euro, più o meno il costo di 1 GW di potenza nucleare (vedasi Barakah negli Emirati Arabi) e probabilmente un costo maggiore di quello atteso per i reattori modulari di piccola taglia che dovrebbero essere sul mercato tra alcuni anni e che potrebbero sostituire adeguatamente quel 1 GW di potenza dal carbone senza problemi di continuità della fornitura. Viene dunque da chiedersi per quale ragione logica l’opzione nucleare non venga presa neppure in considerazione in Sardegna. Ad eccezione dell’ostinata contrarietà della politica e dell’opinione pubblica sarda a qualsiasi cosa che faccia rima con nucleare, non vi sarebbe ragione alcuna, potendo dei piccoli reattori modulari (magari installati su aree militari dismesse, su siti industriali abbandonati o ancora meglio direttamente al posto degli impianti a carbone) adeguatamente fornire energia a basse emissioni 24 ore su 24 e 365 giorni all’anno, preservando al contempo i posti di lavoro e anzi creandone di nuovi, meglio qualificati e meglio pagati. Non è fantascienza, è la strada intrapresa, tra altri, dalla Romania, Paese evidentemente più avanzato del nostro.

La Germania scaricherà sugli altri i costi della Energiewende?

Il governo tedesco ha recentemente innalzato gli obiettivi di decarbonizzazione, puntando alla riduzione delle emissioni del 65% al 2030 e anticipando la neutralità climatica di 5 anni (dal 2050 al 2045). La legge appena introdotta, pur non dettagliando la roadmap del dopo 2030, prevederebbe uno schema di prezzi differenziato per fonti fossili e tecnologie low carbon come rinnovabili e auto elettriche, volto ad incentivare ulteriormente l’abbandono dei combustibili fossili non solo nei trasporti ma anche nel riscaldamento. Secondo alcune fonti la nuova legge potrebbe comportare costi aggiuntivi per circa otto miliardi di euro nel solo 2022, la metà dei quali finirebbe per pesare sui clienti residenziali. Già a partire dal 2020 però anche gli industriali tedeschi, che fino ad ora hanno sostenuto solo limitatamente il peso economico della transizione energetica, avevano cominciato a paventare la perdita di competitività delle industrie tedesche, che potrebbero essere schiacciate dal differenziale di prezzo tra i Paesi vicini, Francia nucleare inclusa, e la Germania. Sul successo dell’Energiewende infatti pesano ancora molte incognite: oltre all’effettiva capacità di penetrazione delle rinnovabili in un mercato che mostra già segni di saturazione, gli imprescindibili lavori di ammodernamento della rete di distribuzione, che secondo le stime comporterebbero una spesa di 79 miliardi di euro da qui al 2030 (1.5 miliardi solo nel 2020) e che trovano inoltre molta resistenza da parte delle comunità interessate dai progetti. L’imminente uscita definitiva dal nucleare e la possibilità che un nuovo governo a guida Verdi possa anticipare l’uscita dal carbone a prima del 2038, mettono il futuro del sistema energetico tedesco ancora più sotto pressione. Da qui la proposta dei rappresentanti delle industrie energivore tedesche di fare leva sulle istituzioni comunitarie per un prezzo unico europeo dell’energia per il comparto industriale. Una simile mossa avrebbe l’effetto di scaricare i costi di scelte politiche interne alla Germania, quale l’uscita dal nucleare, sugli altri Paesi membri dell’Unione, ed è facile immaginare che sarebbe difficilmente digeribile da Francia, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, tanto per citare alcuni tra i maggiori interessati. Alle ambizioni delle grandi industrie tedesche fa in qualche modo eco la proposta di Matthias Miersch, esperto di energia per il partito SPD, il quale ha recentemente proposto che la Germania si faccia promotrice a Bruxelles dell’istituzione di un aggravio del prezzo dell’energia da fonte nucleare, simile, almeno nello schema, a quello istituito per la CO2, al fine di includere nel prezzo “gli immensi costi e i rischi di futuri dell’energia nucleare”. Poco importa che questa azione sarebbe in palese contrasto con il pronunciamento del Joint Research Center, secondo il quale l’energia nucleare è sostenibile al pari delle fonti rinnovabili. Anche questa proposta sarebbe indirizzata a creare una distorsione del prezzo da fonte nucleare a diretto vantaggio delle rinnovabili, dunque del sistema tedesco. Come osservato da diversi commentatori – tra i quali citiamo Rauli Partanen, analista energetico e scrittore finlandese – la Germania ha scelto consapevolmente la sua strada verso la decarbonizzazione e, assieme ad altri Paesi, ha alimentato a livello europeo politiche antinucleari. Tuttavia sarebbe inaccettabile imporre ad altri Paesi di pagare il prezzo di queste scelte, mentre potrebbe essere molto più efficace, in termini di equilibri di prezzo a livello europeo, lasciare liberi i Paesi che intendono perseguire la strada del nucleare, in quanto l’abbondanza di fonti a basse emissioni abbasserebbe nel contempo il prezzo della CO2, agevolando in questo modo indirettamente anche la transizione tedesca.

Il nucleare è morto. Viva il nucleare!

Il nucleare è una tecnologia obsoleta. Trent’anni fa avrebbe avuto senso decarbonizzare con il nucleare ma ormai è troppo tardi. I costi del nucleare non sono competitivi. Il nucleare è pulito ma ormai abbiamo le rinnovabili. Non capita di rado, nei dibattiti sul tema energetico, di sentire almeno una delle affermazioni di cui sopra. Che si tratti dello zio disinformato che l’ha letto su facebook, del giornalista del blasonato quotidiano, o dell’analista di punta di… Greenpeace. E a ben guardare, restringendo il campo di osservazione a determinati contesti e mercati, in particolare in Europa e negli Stati Uniti, verrebbe da essere d’accordo: il nucleare è morto, e noi abbiamo fatto del nostro meglio per ucciderlo. Parafrasando James Mahaffey nel suo ottimo libro “The Atomic Awakening”, il nucleare è il morto che cammina nel panorama energetico. Negli Stati Uniti, ben prima degli incidenti di Three Mile Islande di Chernobyl, l’espansione nucleare si era arrestata, molti progetti di nuovi reattori abortiti e molte costruzioni già avviate abbandonate già nel 1977. La quota di nucleare nella produzione elettrica raggiunse il 20%, e lì giace da allora. Non furono la paura degli incidenti a bloccare l’espansione del nucleare, ma i costi capitali (non assoluti) da sostenere. Parte della responsabilità ricade anche sull’industria nucleare, che, negli Stati Uniti in particolare, ha privilegiato la rincorsa di progetti first-of-a-kind, invece che la standardizzazione, che avrebbe reso l’espansione della produzione nucleare progressivamente meno costosa e più veloce. Va dato atto che l’industria nucleare – a differenza di altri settori, quale quello aereonautico – ha dovuto fronteggiare un’agguerrita opposizione ideologica che l’ha spinta nel baratro di una regolamentazione sempre più stringente, da cui sono scaturite sì efficienza e sicurezza impareggiabili, ma anche lievitazione dei costi, dei tempi di costruzione e del rischio finanziario. Come se non bastasse, le politiche energetiche poste in essere negli ultimi decenni dal governo federale di Washington, da molti Stati USA e dall’Unione Europea sono platealmente sbilanciate sulle rinnovabili se non apertamente avverse al nucleare. Basti pensare che, negli Stati Uniti, l’energia solare riceve sussidi 250 volte maggiori rispetto al nucleare. L’eolico 158 volte maggiori. Tali politiche, se non sconfessate, avranno un’eredità pesante: si stima che negli USA da qui al 2030 cesseranno di operare centrali per oltre 66 GW (circa la potenza elettrica totale della Germania), a fronte di soli 2 GW di nuova capacità installata. Il saldo negativo globale nello stesso periodo potrebbe raggiungere i 70 GW. In Italia, i sussidi alle rinnovabili pesano sulla bolletta elettrica per 11 miliardi di euro all’anno (con la stessa cifra in Cina si costruiscono due reattori da oltre 1 GW di potenza), con il fotovoltaico che si mangia oltre metà della torta. Ne basterebbe il 10% per rendere i piccoli reattori modulari (SMR) competitivi con il gas naturale a ciclo combinato. L’Europa, ipnotizzata da Berlino, continua a svillaneggiare la fonte nucleare – che produce metà dell’energia pulita del continente – apponendo barriere tecnico-legali senza alcuna base scientifica al suo finanziamento, mettendo a repentaglio la sopravvivenza delle centrali esistenti e pregiudicando i progetti futuri. Ce ne sarebbe abbastanza per suonare la marcia funebre. Eppure ogni giorno che passa aumenta il numero degli studi o dei report che presentano l’ineluttabilità della fonte nucleare per il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione che buona parte del mondo industrializzato si è prefissato da qui a tre decenni. Dopo i richiami dell’International Panel for Climate Change (IPCC) e della International Energy Agency (IEA) – due istituzioni non proprio amanti del nucleare – l’ultimo in ordine di tempo e forse il più significativo proviene da due raggruppamenti del Parlamento Europeo, i Conservatori e Riformisti Europei (ERC) e Renew Europe, che insieme possono contare su 158 (su 705) parlamentari. Prendendo a caso di studio due Stati membri, i Paesi Bassi e la Repubblica Ceca, lo studio peer-review confronta due strategie di decarbonizzazione: una che si basa sulle fonti solare e eolica ed una che si basa sul nucleare. Lo studio raggiunge conclusioni che lasciano poco spazio agli equivoci, e che agli addetti ai lavori non risulteranno tuttavia nuove: le grandi installazioni solari ed eoliche richiedono tra 148 e 534 volte più suolo del nucleare; un mix elettrico 100% solare ed eolico richiederebbe per i Paesi bassi una superficie quasi due volte quella delle loro terre emerse; solare ed eolico hanno costi di circa 4 volte superiori al nucleare. Inoltre, raggiungere la neutralità climatica al 2050 richiederebbe incrementare da ora il tasso di espansione delle rinnovabili, tra 4 e 7 volte quello attuale. Se a questo si aggiunge il rinnovato interesse per il nucleare di molti Paesi dell’Est Europa, dell’Asia e dell’Africa e persino di piccoli Paesi che fino ad ora non lo avevano mai preso in considerazione, come l’Irlandae l’Estonia, anche in vista delle innovazioni tecnologiche che potrebbero affacciarsi sul mercato entro questo decennio, viene allora da esclamare con fiducia: il nucleare è morto, viva il nucleare!