Il nucleare è una tecnologia obsoleta. Trent’anni fa avrebbe avuto senso decarbonizzare con il nucleare ma ormai è troppo tardi. I costi del nucleare non sono competitivi. Il nucleare è pulito ma ormai abbiamo le rinnovabili.

Non capita di rado, nei dibattiti sul tema energetico, di sentire almeno una delle affermazioni di cui sopra. Che si tratti dello zio disinformato che l’ha letto su facebook, del giornalista del blasonato quotidiano, o dell’analista di punta di… Greenpeace.

E a ben guardare, restringendo il campo di osservazione a determinati contesti e mercati, in particolare in Europa e negli Stati Uniti, verrebbe da essere d’accordo: il nucleare è morto, e noi abbiamo fatto del nostro meglio per ucciderlo.

Parafrasando James Mahaffey nel suo ottimo libro “The Atomic Awakening”, il nucleare è il morto che cammina nel panorama energetico.

Negli Stati Uniti, ben prima degli incidenti di Three Mile Islande di Chernobyl, l’espansione nucleare si era arrestata, molti progetti di nuovi reattori abortiti e molte costruzioni già avviate abbandonate già nel 1977. La quota di nucleare nella produzione elettrica raggiunse il 20%, e lì giace da allora. Non furono la paura degli incidenti a bloccare l’espansione del nucleare, ma i costi capitali (non assoluti) da sostenere.

Parte della responsabilità ricade anche sull’industria nucleare, che, negli Stati Uniti in particolare, ha privilegiato la rincorsa di progetti first-of-a-kind, invece che la standardizzazione, che avrebbe reso l’espansione della produzione nucleare progressivamente meno costosa e più veloce.

Va dato atto che l’industria nucleare – a differenza di altri settori, quale quello aereonautico – ha dovuto fronteggiare un’agguerrita opposizione ideologica che l’ha spinta nel baratro di una regolamentazione sempre più stringente, da cui sono scaturite sì efficienza e sicurezza impareggiabili, ma anche lievitazione dei costi, dei tempi di costruzione e del rischio finanziario.

Come se non bastasse, le politiche energetiche poste in essere negli ultimi decenni dal governo federale di Washington, da molti Stati USA e dall’Unione Europea sono platealmente sbilanciate sulle rinnovabili se non apertamente avverse al nucleare. Basti pensare che, negli Stati Uniti, l’energia solare riceve sussidi 250 volte maggiori rispetto al nucleare. L’eolico 158 volte maggiori.

Tali politiche, se non sconfessate, avranno un’eredità pesante: si stima che negli USA da qui al 2030 cesseranno di operare centrali per oltre 66 GW (circa la potenza elettrica totale della Germania), a fronte di soli 2 GW di nuova capacità installata. Il saldo negativo globale nello stesso periodo potrebbe raggiungere i 70 GW.

In Italia, i sussidi alle rinnovabili pesano sulla bolletta elettrica per 11 miliardi di euro all’anno (con la stessa cifra in Cina si costruiscono due reattori da oltre 1 GW di potenza), con il fotovoltaico che si mangia oltre metà della torta.

Ne basterebbe il 10% per rendere i piccoli reattori modulari (SMR) competitivi con il gas naturale a ciclo combinato.

L’Europa, ipnotizzata da Berlino, continua a svillaneggiare la fonte nucleare – che produce metà dell’energia pulita del continente – apponendo barriere tecnico-legali senza alcuna base scientifica al suo finanziamento, mettendo a repentaglio la sopravvivenza delle centrali esistenti e pregiudicando i progetti futuri.

Ce ne sarebbe abbastanza per suonare la marcia funebre.

Eppure ogni giorno che passa aumenta il numero degli studi o dei report che presentano l’ineluttabilità della fonte nucleare per il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione che buona parte del mondo industrializzato si è prefissato da qui a tre decenni.

Dopo i richiami dell’International Panel for Climate Change (IPCC) e della International Energy Agency (IEA) – due istituzioni non proprio amanti del nucleare – l’ultimo in ordine di tempo e forse il più significativo proviene da due raggruppamenti del Parlamento Europeo, i Conservatori e Riformisti Europei (ERC) e Renew Europe, che insieme possono contare su 158 (su 705) parlamentari.

Prendendo a caso di studio due Stati membri, i Paesi Bassi e la Repubblica Ceca, lo studio peer-review confronta due strategie di decarbonizzazione: una che si basa sulle fonti solare e eolica ed una che si basa sul nucleare.

Lo studio raggiunge conclusioni che lasciano poco spazio agli equivoci, e che agli addetti ai lavori non risulteranno tuttavia nuove: le grandi installazioni solari ed eoliche richiedono tra 148 e 534 volte più suolo del nucleare; un mix elettrico 100% solare ed eolico richiederebbe per i Paesi bassi una superficie quasi due volte quella delle loro terre emerse; solare ed eolico hanno costi di circa 4 volte superiori al nucleare.

Inoltre, raggiungere la neutralità climatica al 2050 richiederebbe incrementare da ora il tasso di espansione delle rinnovabili, tra 4 e 7 volte quello attuale.

Se a questo si aggiunge il rinnovato interesse per il nucleare di molti Paesi dell’Est Europa, dell’Asia e dell’Africa e persino di piccoli Paesi che fino ad ora non lo avevano mai preso in considerazione, come l’Irlandae l’Estonia, anche in vista delle innovazioni tecnologiche che potrebbero affacciarsi sul mercato entro questo decennio, viene allora da esclamare con fiducia: il nucleare è morto, viva il nucleare!

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