Cina: il nuovo big player?

La Cina oggi ha 54 reattori commerciali in funzione che forniscono circa il 5% dell’elettricità nazionale, per un totale di 51GW. L’obiettivo del precedente piano quinquennale era di avere 58GW entro il 2020, ma questo non ferma il Governo: infatti è stato da poco approvato il nuovo piano 2021-2025 che prevede di arrivare a 70GW di potenza nucleare installata. L’obiettivo è di arrivare al 2025 con un consumo energetico da fonti non fossili al 20% e produzione energetica al 39%. Sedici unità sono già in costruzione e sei nuovi reattori sono stati appena approvati dalla Commissione per lo Sviluppo Nazionale, ma alcune di queste unità devono ancora ottenere l’approvazione del Consiglio di Stato. Questi reattori andranno ad aggiungersi a centrali già esistenti: in particolare due unità verranno aggiunte sia a Sanmen che a Haiyang, entrambe ospitanti 2 AP1000 in funzione da fine 2018 o inizio 2019. Gli AP1000 sono reattori di Generazione III+ ad acqua con produzione elettrica nominale di 1’100 MW, e sono caratterizzati dall’implementazione di maggiori misure di sicurezza passiva.  

La Cina sorpassa la Russia nella corsa al primo reattore modulare su terra ferma

La partita per il primo Small Modular Reactor (SMR) operativo sulla terra ferma si gioca tutta nel continente asiatico. E’ di ieri infatti la notizia dell’installazione del basamento del vessel del primo ACP100 in costruzione nella provincia cinese di Hainan. L’ACP100, anche noto come Linglong One, è un reattore ad acqua pressurizzata della potenza di 125 MWe studiato per la cogenerazione di elettricità e calore da impiegare anche ai fini industriali, ad esempio per la desalinizzazione dell’acqua marina. La costruzione della prima di due unità è iniziata lo scorso marzo, presso il sito che già ospita due reattori CNP600. Se i tempi previsti saranno rispettati, entrambe le unità dovrebbero entrare in funzione entro la fine del 2026, pari ad un tempo di costruzione di 58 mesi. La Cina dovrebbe dunque battere ampiamente sui tempi la Russia, impegnata fino al 2028 nella costruzione del primo RITM-200. Resta da vedere se gli Stati Uniti o il Canada, due Paesi molto impegnati nella progettazione di SMR, riusciranno ad infilarsi in questa competizione, con i primi prototipi anche essi attesi entrare in operatività tra il 2025 e il 2027, ma per ora solo sulla carta. Al momento infatti il vantaggio competitivo di Russia e Cina nella costruzione di reattori tradizionali (per i quali riescono a rispettare tempi e costi) sembra estendersi ai primi reattori modulari, anche perché questi ultimi sono una diretta evoluzione di designs già ampiamente collaudati nei reattori tradizionali o nella propulsione dei rompighiaccio. Questo vantaggio potrebbe tradursi anche in un vantaggio economico sul lato delle esportazioni, dal momento che molti Paesi, anche in Europa, guardano con interesse agli SMR.

Ecco cosa è successo alla centrale nucleare cinese di Taishan

Negli scorsi giorni è rimbalzata su molti organi di stampa italiani ed esteri la notizia di un presunto incidente in corso alla centrale nucleare cinese di Taishan. La notizia sarebbe stata originata da una comunicazione di Framatome al Dipartimento di Stato americano riguardo ad una anomalia operativa al reattore 1 dell’impianto cinese, che consta di due unità EPR di tecnologia francese, dunque in comproprietà con la francese EDF. Il coinvolgimento della compagnia francese e verosimilmente l’ignoranza dei contenuti esatti della comunicazione inviata al Dipartimento di Stato (vogliamo escludere la malafede) hanno spinto la CNN, e a ruota molti media, a parlare di fuga radioattiva citando addirittura un virgolettato attribuito alla compagnia EDF in cui si parla di “minaccia radiologica imminente” e di cui non vi è ovviamente traccia nei comunicati ufficiali della compagnia. Con il passare delle ore il sopraggiungere di nuovi dettagli hanno sgonfiato la notizia di quello che, fin dall’inizio, era parso a molti esperti un evento di carattere tecnico con potenziali conseguenze sull’efficienza del reattore ma senza alcun rischio di incidente. Si è trattato infatti del cedimento del rivestimento in ceramica di alcuni elementi che compongono le barre di combustibile nucleare che alimentano la reazione nel reattore. Tale cedimento ha causato l’emissione nel sistema di raffreddamento del circuito primario di alcuni gas nobili causando un aumento della radioattività misurata nel circuito, comunque entro i limiti operativi, per cui non vi è stata interruzione della produzione di energia. Un evento simile non è per nulla nuovo, anzi abbastanza comune per gli operatori di centrali nucleari. Nel passato negli Stati Uniti si verificavano dozzine di casi simili nel corso della vita operativa di un reattore, prima che i produttori di combustibile riuscissero a ridurne l’occorrenza con standard di qualità sempre più elevati. La ceramica che ricopre gli elementi di combustibile infatti, seppure apprezzabile per la resistenza al calore, è pur sempre ceramica e può fratturarsi come quella che compone la vostra tazza preferita (anche se meno spesso). Tale rivestimento ceramico non è però che la prima barriera volta a contenere il materiale di fissione, la seconda è composta dal contenitore metallico che racchiude tutti gli elementi di combustibile (pellets) nella cosiddetta barra di combustile (fuel rod). La quantità di barre di combustibile di ciascun reattore varia a seconda della tipologia, ma può arrivare a 60 mila unità. Ecco perché l’occorrenza del cedimento del rivestimento di alcuni elementi in alcune barre non desta particolari preoccupazioni e non richiede, in linea di principio, il fermo del reattore. Sebbene tale vento possa portare al rilascio di elementi radioattivi nel circuito primario, bisogna ricordare che tale circuito è isolato dall’esterno (e in gran parte dei reattori anche dal circuito secondario, ovvero quello nel quale è generato il vapore che aziona le turbine), dunque non sussiste alcuna possibilità di dispersione di elementi radioattivi nell’ambiente. Come se non bastasse, il circuito primario è contenuto nel vessel, l’edificio di contenimento del reattore, e spesso in un ulteriore edificio in cemento armato, secondo uno schema di difese a barriera multipla e sistemi di sicurezza ridondanti che vanno sotto il nome di difesa in profondità (defense-in depth). Di conseguenza, la concentrazione di gas nobili nel circuito primario continuerà ad essere monitorata. Se dovesse aumentare, indicazione del danneggiamento di ulteriori elementi, il reattore potrebbe essere fermato prima del raggiungimento di una soglia prestabilita, gli elementi danneggiati verrebbero ispezionati e rimossi, e il reattore tornerebbe operativo. Qualora invece la concentrazione non dovesse aumentare e l’evento rimanesse isolato, il rettore potrebbe continuare a produrre energia fino a prossimo rifornimento di combustibile programmato, in base a considerazioni che attengono all’efficienza produttiva.

Il primo reattore “100% made in China” connesso alla rete

L’unità 5 della centrale di Fuquing è stata connessa alla rete lo scorso 27 novembre. L’evento marca una pietra miliare nel programma nucleare cinese, proiettando il Dragone nell’Olimpo delle grandi potenze del nucleare civile. Si tratta infatti del primo reattore Hualong One (HPR-1000) connesso alla rete. Hualong One è il primo design completamente cinese, nato dalla combinazione dei concetti ACP-1000 e ACPR-1000. L’unità 6 della stessa centrale sarà connessa alla rete nei prossimi mesi, mentre altri due HPR-1000 sno in costruzione alla centrale di Fangchenggang (Guangxi). DUe reattori della stessa tipologia sono in costruzione in Pakistan, alla centrale di Karachi.

Gli USA tornano sulla scena internazionale del nucleare civile

Nelle ultime settimane si sono intensificati i segnali che indicano il prepotente ritorno degli Stati Uniti sulla scena del nucleare civile mondiale al fine di contendere il primato del settore a Russia e Cina. Come noto infatti, un programma nucleare – anche se non è proprio “per sempre” come recita una nota pubblicità di diamanti – costituisce un legame strategico e duraturo con i Paesi fornitori della tecnologia. Da qui il legittimo interesse degli Stati Uniti di recuperare più terreno possibile rispetto alle “rivali” Russia e Cina, onde evitare che sempre più Paesi, stringendo accordi commerciali nel campo nucleare, scivolino nell’area d’influenza delle due superpotenze euroasiatiche. L’elemento più importante di questa strategia è l’accordo trentennale siglato alcuni giorni fa dal Segretario all’Energia USA ed il suo omologo polacco: un accordo da 18 miliardi di dollari in forniture e servizi destinati al nascente programma nucleare polacco, che punta a dotare il Paese di 6-9 GW di potenza nucleare entro il 2040. L’accordo segue quello precedentemente siglato per la fornitura di gas naturale liquefatto, e riflette il disegno più ampio di alleggerire la dipendenza strategica della Polonia dalla Russia, oltre che ridurre di oltre la metà l’uso del carbone (che nel 2019 rappresentava il 74% della produzione elettrica del Paese). Piotr Wilczek, ambasciatore polacco a Washington, si è spinto a dichiarare che l’accordo siglato rappresenta una scelta di collocazione strategica per i prossimi 100 anni. L’accordo con la Polonia si inserisce nel contesto di una strategia più ampia che abbraccia tutta l’Europa orientale: lo scorso 9 ottobre la Romania aveva sottoscritto un accordo con gli Stati Uniti del valore di 8 miliardi di dollari per l’ammodernamento e l’espansione della centrale nucleare di Cernavoda, stracciando precedenti impegni assunti con la Cina. Simili passi sono stati compiuti, per ora senza risultato, con la Repubblica Ceca. La strategia USA di re-impegno nel nucleare all’estero appare convinta e di ampio respiro, godendo di appoggio bipartisan, come testimoniano la recente modifica della legislazione riguardante le forniture di tecnologia strategica all’estero e l’apertura della U.S. International Development Finance Corporation (DFC, la banca per lo sviluppo Americana) al finanziamento di progetti nucleari. A beneficiarne sarà anche NuScale, che ha ottenuto il supporto dalla (DFC) per lo sviluppo di 2,5 GW di potenza nucleare (da SMR) in Sud Africa. Tali sforzi sono indirizzati dunque a riportare l’equilibrio in vaste aree del globo che hanno progressivamente subito il fascino delle politiche russe e cinesi, tra i Paesi più noti Ungheria, Turchia ed Egitto, a tutto svantaggio delle imprese e della politica americana. In questo quadro spicca l’assenza europea come attore di primo piano. Gran Bretagna, Francia, e persino Italia, sono spesso protagoniste, con alterne fortune, in progetti nucleari esteri, spesso in consorzio con altri Paesi quali Giappone, Corea del Sud o Canada, ma le industrie nucleari europee scontano la freddezza, se non la vera e propria ostilità, delle politiche comunitarie nei confronti del nucleare. A questo riguardo, il Vice-Presidente della Commissione Europea e Responsabile del Green New Deal, Timmermans, ha dichiarato che l’Unione non porrà ostacoli ai Paesi membri che intendono intraprendere un programma nucleare, pur mettendo in guardia da quelli che a suo parere sono i lati negativi del nucleare, ovvero i costi elevati e la necessità di un impego di lunga durata.