35 anni dall’incidente di Chernobyl

Il 26 aprile ha segnato il 35° anniversario dall’incidente al reattore 4 della centrale nucleare di Chernobyl (Ucraina). L’incidente continua ad avere un’eco abbastanza potente tra i media e la stampa italiana, spesso con una narrazione più mitologica che scientifica, retaggio della paura dei mesi immediatamente successivi all’incidente, e a volte conseguenza di una visione ideologica dell’energia nucleare e dei suo rischi potenziali. A distanza di 35 anni quella di Chernobyl resta la più grande catastrofe del nucleare energetico in 70 anni di storia, nonché l’unica che abbia effettivamente causato delle vittime riconducibili alle radiazioni (Three Mile Island nel 1979 e Fukushima nel 2011 non hanno causato vitime). Tuttavia la descrizione dele conseguenze dell’incidente è spesso esagerata, con alcune organizzazioni ambientaliste che, anche oggi, attribuiscono alle radiazioni rilasciate dall’evento diversi milioni di morti in tutto il mondo. Le evidenze scientifiche ad oggi raccolte ci consentono invece di affermare che l’incidente ha direttamente causato la morte di 28 dei 134 lavoratori che intervennero nelle prime ore dell’emergenza, mentre altri 19 sono deceduti fino al 2005, ma per cause non riconducibili alla dose di radiazione assorbita. I 530 mila lavoratori che intervennero in vari periodi di tempo presso la centrale successivamente all’incidente restano attentamente monitorati in quanto potenzialmente a rischio di sviluppare conseguenze sanitarie avverse (es. tumori e cataratta) riconducibili alle radiazioni. Per quanto riguarda la popolazione delle aree interessate dalla ricaduta radioattiva (territori parte di Bielorussia, Ucraina e Federazione Russa), circa 6000 casi di tumore alla tiroide sono stati riscontrati tra coloro che erano bambini e adolescenti al tempo dell’incidente, conseguenza dell’esposizione allo iodio radioattivo. Per fortuna, il cancro alla tiroide ha una mortalità bassissima e può essere curato nel 99% dei casi. Nessun altro effetto sanitario, quale aumentata incidenza di altri tipi di tumore o malformazioni, è stato osservato. Nel resto d’Europa l’incidente non ha mai avuto alcun impatto radiologico dal punto di vista sanitario (per un approfondimento sulla radioattività di Chernobyl in Italia si veda questo articolo di Massimo Burbi per il Comitato Nucleare e Ragione). Oggi, gran parte delle aree che furono esposte alla ricaduta radioattiva presentano valori di contaminazione compatibili con il fondo ambientale, con eccezione della zona di esclusione (30 km dalla centrale), che localmente registra ancora valori più elevati, seppure non letali e sicuramente non pericolosi in caso di permanenza non prolungata. Per marcare l’anniversario, l’International Atomic Energy Agency ha pubblicato il documentario prodotto nel 1991 che racconta lo svolgimento ed i risultati dell’International Chernobyl Project, il primo grande sforzo internazionale per valutare indipendentemente dalle autorità sovietiche le conseguenze ambientali e sanitarie dell’incidente. E’ un video molto interessante ed istruttivo, della durata di appena 30 minuti, di cui raccomandiamo a tutti la visione.  

Un Italiano a Fukushima per un giorno

Il racconto del recente viaggio in Giappone di Massimo Burbi, socio del Comitato Nucleare e Ragione* Prologo Fukushima non è una città, è una prefettura del Giappone dove vivono quasi 2 milioni di persone che si trova nella regione di Tōhoku. Fukushima City è il suo capoluogo, ma il motivo per cui tutto il mondo conosce questo nome è legato a vicende che si sono svolte a circa 60 km da lì, all’estremo est della prefettura, dove il Giappone confina con l’Oceano Pacifico. Proprio dall’oceano, l’11 Marzo 2011, arriva Il peggior terremoto mai verificatosi in Giappone e il quarto più potente registrato in tutto il pianeta da 120 anni a questa parte. Magnitudo 9 può sembrare solo un numero fino a quando non si ha qualcosa con cui confrontarlo.  Abbiamo  ancora negli occhi il sisma dell’Aquila del 2009, 309 morti e 65000 sfollati. Quel terremoto ha avuto una magnitudo (Richter) 5.9. La scala logaritmica fa sembrare i due numeri non così distanti, ma 3 punti di magnitudo di differenza vogliono dire che il sisma che due anni dopo colpisce il Giappone libera un’energia circa 30000 volte superiore [1]. Come se non bastasse, il terremoto scatena uno tsunami con onde alte più di 10 metri che si abbattono sulla costa ad oltre 700 km/h, penetrando nell’entroterra per chilometri: 16000 morti, 2500 dispersi (che ad anni di distanza sono purtroppo sinonimi, anche se ancora c’è chi non ha smesso di cercare), 120000 edifici completamente distrutti, intere città cancellate e 340000 sfollati. Sulla costa c’è anche la centrale nucleare di Fukushima Daiichi (che vuol dire numero 1). La centrale regge al terremoto ed è già in shutdown quando arriva l’onda di tsunami. Le linee elettriche sono interrotte e il raffreddamento dei reattori è affidato ai generatori diesel di emergenza. Uno studio del 2008 (ignorato dalla società Tepco, che gestisce l’impianto) aveva avvertito della possibilità in quell’area di onde di tsunami alte oltre 10 metri, ma nel marzo 2011 a proteggere la struttura dal maremoto, c’è una barriera alta poco più della metà. L’onda che raggiunge la costa circa un’ora dopo il terremoto è alta più di 14 metri, supera facilmente le barriere e sommerge completamente i locali dei generatori diesel, colpevolmente collocati al piano interrato, lasciando la centrale senza corrente elettrica, e quindi anche senza raffreddamento. Si creano così le condizioni che portano, in vari momenti dei giorni successivi, alle esplosioni (chimiche, non nucleari) nei reattori 1-3, e nell’edificio del reattore 4, con rilascio di materiale radioattivo in atmosfera e in mare. Il giorno dopo oltre 150000 persone nel raggio di 20 km dalla centrale nucleare vengono evacuate [2]. Arrivo a Namie Town Sono le 11 di mattina quando arriviamo a Namie. Sono passati più di otto anni e mezzo dal terremoto, ma qui sembra che molte cose siano ancora ferme a quei giorni. Namie Town è stata una delle città maggiormente interessate dal rilascio di materiale radioattivo dalla centrale di Fukushima Daiichi, che si trova a circa 8 km a sud-est in linea d’aria. Per sei anni è stata una città fantasma, solo nella primavera del 2017 è stato permesso alla popolazione di tornare a vivere qui, ma in pochi l’hanno fatto. “Qui vivevano circa 20000 persone, solo il 5% è tornato” mi dice Fumie, originaria di Fukushima City, che mi accompagna in questa giornata. La zona di evacuazione è andata progressivamente riducendosi nel corso degli anni, attualmente copre il 2.7% del territorio della prefettura e sono circa 30000 le persone che continuano a vivere con lo status di “sfollati” fuori dai suoi confini [2]. Scendiamo dalla macchina nei pressi della stazione ferroviaria. Da qui partono solo treni verso nord, ma ci sono lavori in corso per ripristinare il collegamento con Tomioka Town, circa 20 km più a sud. Fuori dalla stazione ha recentemente aperto un nuovo cafè, da circa due mesi funziona di nuovo il servizio taxi, e non lontano da dove ci troviamo è da poco tornato ad operare il dentista. Tutti segni di una ricostruzione, non solo materiale, che va avanti a piccoli passi tra molte difficoltà ed incertezze sul futuro. Camminando per le vie della città la radioattività è estremamente bassa, raramente si superano gli 0.15 µSv/h, livelli inferiori a quelli che si trovano in molte parti d’Italia. A Roma ci si aggira sugli 0.30 µSv/h, e in certe zone del centro di Orvieto si rilevano valori superiori a 0.70 µSv/h. Ma per quanto la radioattività possa essere bassa la paura si fa ancora sentire, e in ogni caso non è affatto scontato che chi ha impiegato anni a rifarsi una vita altrove ora torni da dove è venuto, andando incontro ad un’altra faticosa transizione. A Fukushima non ci sono state vittime per le radiazioni [3], uno studio ha rilevato che nei primi quattro mesi dopo l’incidente, quelli in cui l’esposizione è stata massima, il 99.4% dei soggetti monitorati ha ricevuto una dose equivalente aggiuntiva per esposizione esterna inferiore a 3 mSv [4]. La dose media annua complessiva di un cittadino italiano è dell’ordine di 4.5 mSv [5]. Nonostante questo, circa 2000 persone sono morte a causa di un’evacuazione disorganizzata, in cui c’è chi è stato strappato in fretta e furia dagli ospedali, finendo per non ricevere le cure mediche di cui aveva bisogno, e  dello stress da ricollocamento che ha provocato depressione, alcolismo e suicidi [6]. Paura, ansia e scarsa informazione sulle radiazioni da queste parti hanno fatto più vittime dello tsunami [7]. E c’è anche chi pensa che l’evacuazione sia durata troppo a lungo. E’ il caso di Shunichi Yamashita (Nagasaki University), per due anni a capo del progetto che ha studiato gli effetti dell’incidente sulla salute degli abitanti di Fukushima, convinto che le persone avrebbero potuto tornare nelle loro case dopo un mese [8]. Nel centro di Namie molti edifici danneggiati dal terremoto sono stati demoliti, altri, malgrado l’aspetto apparentemente sano, lo saranno presto. A contrassegnarli c’è un piccolo adesivo rosso sulle finestre. Continuando a camminare raggiungiamo la scuola del paese che affaccia direttamente…