Terremoto colpisce Fukushima-Daichii: danni monitorati ma senza conseguenze.

  Lo scorso 13 febbraio un terremoto di magnitudo 7.1 localizzato 90 km a est della costa orientale del Giappone ha interessato anche il sito della centrale di Fukushima-Daiichi. Alcuni giorni dopo, la Tepco ha informato che i livelli dell’acqua di raffreddamento che viene immessa nei vessel delle unità 1 e 3 fin dall’incidente del Marzo 2011 sono scesi rispettivamente di circa 70 e 30 cm, e che la causa potrebbe essere un riassetto strutturale del vessel causato dal terremoto recente. Tepco ha tuttavia precisato che sia la temperature alla base del vessel, sia i valori di radioattività rilevati internamente alla struttura di contenimento e nell’ambiente circostante sono stabili, escludendo dunque possibili impatti esterni. Ulteriori indagini saranno effettuate per assicurarsi che la perdita d’acqua sia confinata all’interno dell’edificio reattore Fonte: World Nuclear News

Webinar ANS su Fukushima-Daiichi

L’American Nuclear Society propone a tutti gli interessati il webinar “A look back at Fukushima Daiichi Accident” nel decennale dell’incidente. Il webinar avrà luogo martedì 2 marzo alle 19 (ora italiana). Relatori: Lake Barrett, Senior Advisor, TEPCO and IRID Michael Corradini, Distinguished Professor Emeritus, University of Wisconsin-Madison Paul Dickman, Senior Policy Fellow, Argonne National Laboratory Dale Klein, Former Chairman of the Nuclear Regulatory Commission Joy Rempe, Principal, Rempe and Associates, LLC Per registrarsi accedere alla pagina ufficiale.  

Perché la paura fa più danni delle radiazioni

Presentiamo di seguito i risultati di un lavoro pubblicato nel 2019 sull’International Journal of Radiation Biology, Cost of fear and radiation protection actions: Washington County, Utah and Fukushima, Japan {Comparing case histories}, autori Bruce W. Church e Antone L. Brooks. L’articolo è stato recentemente portato all’attenzione del grande pubblico da James Conca per Forbes. Antone Brooks è stato Chief Scientist presso il Low Dose Research Program del Dipartimento dell’Energia statunitense. Bruce Church ha scritto molteplici lavori e monografie sugli effetti biologici delle radiazioni. Negli anni Cinquanta e Sessanta il deserto dello Utah (USA) fu teatro di test di ordigni nucleari in atmosfera. Nel 1953, uno di questi test, nome in codice Harry, causò una ricaduta radioattiva sulla cittadina di St. George, contea di Washington, nel sud dello Utah. A quel tempo, lo studio degli effetti delle radiazioni sulla salute umana era agli albori, in quanto da poco si stavano studiando gli effetti sui sopravvissuti dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. Conformemente alle conoscenze scientifiche dell’epoca e ai limiti di esposizione alle radiazioni vigenti per il pubblico (circa 39 mSv/anno), le autorità raccomandarono alla popolazione di rimanere all’interno degli edifici per evitare un’esposizione no necessaria, sottolineando che non sussisteva nessun pericolo immediato ma che la misura era precauzionale. Dieci anni fa, un devastante tsunami causato da uno dei maggiori terremoti della storia sconvolse la costa nord-orientale del Giappone, determinando un incidente nucleare presso la centrale di Fukushima-Daiichi, con successivo rilascio di ingenti quantità di materiale radioattivo in atmosfera. Nel caos infrastrutturale e comunicativo già causato dal terremoto e dallo tsunami (che insieme costarono la vita ad oltre 19000 persone), le autorità ordinarono l’evacuazione forzata della popolazione da un’area via via crescente intorno alla centrale disastrata, con l’intento di limitare l’esposizione alle radiazioni al di sotto di 1-20 mSv, a seconda dei casi, con la popolazione, che confusa dalla concitazione degli eventi e sfiduciata dalle informazioni contrastanti, tendeva spesso a richiedere l’applicazione del limite più basso possibile (1 mSv). I dati ad oggi raccolti sull’effettiva esposizione alla radioattività causata alla popolazione dai due eventi e sulle conseguenze sanitarie degli stessi permettono di fare un confronto sull’efficacia o meno delle misure protettive assunte dalle autorità, in relazione alla effettiva entità del danno che si prefiggevano di evitare. L’esposizione esterna a radiazioni gamma nell’evento dello Utah fu di 2-3 volte superiore a quella di Fukushima(lo studio citato non considera l’esposizione interna, poiché il suo calcolo dipende da molteplici fattori, benché se fosse stata considerata avrebbe ulteriormente allargato il divario tra i due eventi). D’altro canto, in entrambi i casi le radiazioni non hanno causato danni alla salute diretti (né morti ne ammalati) e tutti gli studi scientifici reputano altamente improbabile anche la possibilità di ricondurre effetti indiretti (quali incremento di patologie tumorali), passati (nel caso dello Utah) o futuri (nel caso di Fukushima), alle radiazioni rilasciate. Di fatto, lo Utah vanta la più bassa incidenza di tumori negli Stati Uniti, e la contea di Washington occupa le posizioni migliori della medesima classifica a livello statale. Per contro, numerosi studi negli ultimi anni hanno evidenziato come l’evacuazione della popolazione dalle zone interessate dall’incidente nucleare di Fukushima, inclusi anziani ospedalizzati e ospiti di case di riposo, abbia causato la morte di circa 1600-2000 persone, oltre ad una pesante eredità di disagio psicologico e socio-economico (divorzi, depressione, alcolismo, degrado economico, etc). Tale evidenza aveva spinto una commissione di esperti internazionali (ICRP) ad affermare, già nel 2012, che “l’incidente [di Fukushima, ndr] conferma che le conseguenze psicologiche rappresentano l’effetto preponderante di un disastro nucleare. Queste conseguenze sono sostanzialmente ignorate nelle linee guida e negli standard di protezione radiologica. In altri termini, la paura dell’esposizione a basse dosi di radiazioni rappresenta di gran lunga il maggior rischio sanitario connesso alla gran parte di casi di esposizione alle radiazioni (Waltar et al., 2016). Mentre la vita nel sud dello Utah è andata avanti normalmente, con una economia florida e una popolazione sana e numerosa, la vita e l’economia delle popolazioni evacuate a causa dell’incidente di Fukushima sono state compromesse pesantemente, in molti casi in modo irreparabile. Evidenziata la differenza di approccio, e di risultati, nei due casi, rimane da chiedersi cosa abbia portato in 70 anni ad una tale diffusione della paura delle radiazioni tanto da rendere i criteri di esposizione via via più restrittivi e da compromettere la fiducia di vasti settori dell’opinione pubblica nei confronti delle tecnologie nucleari. Chi fosse tentato di attribuire questi effetti al progresso della conoscenza scientifica nel campo degli effetti biologici delle radiazioni sarebbe sulla strada sbagliata. Lo studio citato infatti evidenzia come decadi di studi scientifici e di dati raccolti anche utilizzando le più moderne tecniche nel campo della biologia molecolare e cellulare dimostrano semmai il fatto che molti degli effetti negativi sulla salute umana ipotizzati in conseguenza dell’esposizione a basse dosi di radiazione non si verificano. I dati scientifici nel loro insieme dimostrano che i meccanismi biologici indotti da basse dosi di radiazioni sono molto diversi da quelli indotti da dosi elevate (sopra i 100 mSv) e che in molti casi questi meccanismi sono protettivi, non dannosi, nei confronti delle cellule. Di conseguenza, l’uso della Linear Non Threshold Hypothesis (LNTH, ovvero la teoria che determina il livello di pericolosità di basse dosi di radiazioni estrapolandolo linearmente dagli effetti osservati alle alte dosi) ai fini della valutazione del rischio non sarebbe scientificamente giustificato. Se non dai dati scientifici dunque, da dove arriva questa paura crescente delle radiazioni? Gli autori dello studio – e non solo loro – sostengono che essa sia stata alimentata in campo sociale e politico come funzionale all’opposizione – interessata o meno – all’uso delle tecnologie nucleari, anche attraverso il dirompente impiego di un vasto catalogo di libri e pellicole cinematografiche e televisive prive di basi scientifiche, ma di sicuro impatto nel pubblico.

Il Direttore Generale IAEA loda i progressi fatti a Fukushima

Il direttore generale della IAEA Rafael Mariano Grossi ha visitato la centrale di Fukushima Daiichi nell’ambito della sua prima visita in Giappone dall’insediamento, avvenuta lo scorso 26 febbraio. Grossi ha avuto modo di rilevare come gli sforzi di decomissioning in corso presso la centrale di Daiichi siano meticolosi e sistematici e la tendenza sia incoraggiante, malgrado vi siano ancora alcune sfide da risolvere. In particolare la decontaminazione dei liquidi con il metodo ALPS (Advanced Liquid Processing System) ha finora permesso di rimuovere gran parte dei radionuclidi da oltre 1 milione di metri cubi d’acqua. L’acqua trattata, che ora contiene solo trizio, è per ora immagazinata in loco in apposite ciserne la cui capacità massima sarà ragginta nel 2022. A tal riguardo, la IAEA ha sollecitato le autorità giapponesi a eliminare definitivamente l’acqua contaminata tramite una delle due opzioni tecniche sicure, ovvero la vaporizzazione o la diluizione nell’oceano. Il Governo Giapponese deve però ancora prendere una decisione finale in merito. Fonte World Nuclear News.

Un Italiano a Fukushima per un giorno

Il racconto del recente viaggio in Giappone di Massimo Burbi, socio del Comitato Nucleare e Ragione* Prologo Fukushima non è una città, è una prefettura del Giappone dove vivono quasi 2 milioni di persone che si trova nella regione di Tōhoku. Fukushima City è il suo capoluogo, ma il motivo per cui tutto il mondo conosce questo nome è legato a vicende che si sono svolte a circa 60 km da lì, all’estremo est della prefettura, dove il Giappone confina con l’Oceano Pacifico. Proprio dall’oceano, l’11 Marzo 2011, arriva Il peggior terremoto mai verificatosi in Giappone e il quarto più potente registrato in tutto il pianeta da 120 anni a questa parte. Magnitudo 9 può sembrare solo un numero fino a quando non si ha qualcosa con cui confrontarlo.  Abbiamo  ancora negli occhi il sisma dell’Aquila del 2009, 309 morti e 65000 sfollati. Quel terremoto ha avuto una magnitudo (Richter) 5.9. La scala logaritmica fa sembrare i due numeri non così distanti, ma 3 punti di magnitudo di differenza vogliono dire che il sisma che due anni dopo colpisce il Giappone libera un’energia circa 30000 volte superiore [1]. Come se non bastasse, il terremoto scatena uno tsunami con onde alte più di 10 metri che si abbattono sulla costa ad oltre 700 km/h, penetrando nell’entroterra per chilometri: 16000 morti, 2500 dispersi (che ad anni di distanza sono purtroppo sinonimi, anche se ancora c’è chi non ha smesso di cercare), 120000 edifici completamente distrutti, intere città cancellate e 340000 sfollati. Sulla costa c’è anche la centrale nucleare di Fukushima Daiichi (che vuol dire numero 1). La centrale regge al terremoto ed è già in shutdown quando arriva l’onda di tsunami. Le linee elettriche sono interrotte e il raffreddamento dei reattori è affidato ai generatori diesel di emergenza. Uno studio del 2008 (ignorato dalla società Tepco, che gestisce l’impianto) aveva avvertito della possibilità in quell’area di onde di tsunami alte oltre 10 metri, ma nel marzo 2011 a proteggere la struttura dal maremoto, c’è una barriera alta poco più della metà. L’onda che raggiunge la costa circa un’ora dopo il terremoto è alta più di 14 metri, supera facilmente le barriere e sommerge completamente i locali dei generatori diesel, colpevolmente collocati al piano interrato, lasciando la centrale senza corrente elettrica, e quindi anche senza raffreddamento. Si creano così le condizioni che portano, in vari momenti dei giorni successivi, alle esplosioni (chimiche, non nucleari) nei reattori 1-3, e nell’edificio del reattore 4, con rilascio di materiale radioattivo in atmosfera e in mare. Il giorno dopo oltre 150000 persone nel raggio di 20 km dalla centrale nucleare vengono evacuate [2]. Arrivo a Namie Town Sono le 11 di mattina quando arriviamo a Namie. Sono passati più di otto anni e mezzo dal terremoto, ma qui sembra che molte cose siano ancora ferme a quei giorni. Namie Town è stata una delle città maggiormente interessate dal rilascio di materiale radioattivo dalla centrale di Fukushima Daiichi, che si trova a circa 8 km a sud-est in linea d’aria. Per sei anni è stata una città fantasma, solo nella primavera del 2017 è stato permesso alla popolazione di tornare a vivere qui, ma in pochi l’hanno fatto. “Qui vivevano circa 20000 persone, solo il 5% è tornato” mi dice Fumie, originaria di Fukushima City, che mi accompagna in questa giornata. La zona di evacuazione è andata progressivamente riducendosi nel corso degli anni, attualmente copre il 2.7% del territorio della prefettura e sono circa 30000 le persone che continuano a vivere con lo status di “sfollati” fuori dai suoi confini [2]. Scendiamo dalla macchina nei pressi della stazione ferroviaria. Da qui partono solo treni verso nord, ma ci sono lavori in corso per ripristinare il collegamento con Tomioka Town, circa 20 km più a sud. Fuori dalla stazione ha recentemente aperto un nuovo cafè, da circa due mesi funziona di nuovo il servizio taxi, e non lontano da dove ci troviamo è da poco tornato ad operare il dentista. Tutti segni di una ricostruzione, non solo materiale, che va avanti a piccoli passi tra molte difficoltà ed incertezze sul futuro. Camminando per le vie della città la radioattività è estremamente bassa, raramente si superano gli 0.15 µSv/h, livelli inferiori a quelli che si trovano in molte parti d’Italia. A Roma ci si aggira sugli 0.30 µSv/h, e in certe zone del centro di Orvieto si rilevano valori superiori a 0.70 µSv/h. Ma per quanto la radioattività possa essere bassa la paura si fa ancora sentire, e in ogni caso non è affatto scontato che chi ha impiegato anni a rifarsi una vita altrove ora torni da dove è venuto, andando incontro ad un’altra faticosa transizione. A Fukushima non ci sono state vittime per le radiazioni [3], uno studio ha rilevato che nei primi quattro mesi dopo l’incidente, quelli in cui l’esposizione è stata massima, il 99.4% dei soggetti monitorati ha ricevuto una dose equivalente aggiuntiva per esposizione esterna inferiore a 3 mSv [4]. La dose media annua complessiva di un cittadino italiano è dell’ordine di 4.5 mSv [5]. Nonostante questo, circa 2000 persone sono morte a causa di un’evacuazione disorganizzata, in cui c’è chi è stato strappato in fretta e furia dagli ospedali, finendo per non ricevere le cure mediche di cui aveva bisogno, e  dello stress da ricollocamento che ha provocato depressione, alcolismo e suicidi [6]. Paura, ansia e scarsa informazione sulle radiazioni da queste parti hanno fatto più vittime dello tsunami [7]. E c’è anche chi pensa che l’evacuazione sia durata troppo a lungo. E’ il caso di Shunichi Yamashita (Nagasaki University), per due anni a capo del progetto che ha studiato gli effetti dell’incidente sulla salute degli abitanti di Fukushima, convinto che le persone avrebbero potuto tornare nelle loro case dopo un mese [8]. Nel centro di Namie molti edifici danneggiati dal terremoto sono stati demoliti, altri, malgrado l’aspetto apparentemente sano, lo saranno presto. A contrassegnarli c’è un piccolo adesivo rosso sulle finestre. Continuando a camminare raggiungiamo la scuola del paese che affaccia direttamente…