Il nucleare nella tassonomia dopo le elezioni tedesche?

La decisione sull’inserimento o meno dell’energia nucleare nel novero della finanza sostenibile è attesa da parte della Commissione Europea entro fine anno.  L’orientamento emergente, a detta di molti commentatori, è che il parere positivo del massimo organo esecutivo comunitario arriverà dopo le elezioni tedesche del 26 settembre, per non turbare la campagna elettorale. Il lungo iter consultivo che ha visto ben tre organismi indipendenti analizzare la sostenibilità ambientale del nucleare (secondo il principio del do not significant harm, unico in discussione), non ha portato alcuna evidenza scientifica che contraddica la sostenibilità dell’atomo. Dunque, come ha dichiarato ad Euractiv Thomas Pellerin-Carlin, direttore del Jacques Delors Institute’s energy centre, la decisione più probabile è che si arrivi all’inserimento del nucleare nella tassonomia, una decisione che sarebbe consistente con gli orientamenti maturati in questi ultimi mesi. L’ottimismo è condiviso dai rappresentanti dell’industria nucleare europea e da molti diplomatici che hanno dimestichezza con le politiche della Commissione Europea. Foratom, per bocca della responsabile comunicazione Jessica Johnson, si aspetta la decisione positiva tra ottobre e novembre. Sarebbero proprio le evidenze scientifiche l’appiglio per la decisione della Commissione Europea, che supererebbero, per una volta, il peso politico del fronte dei Paesi ostili al nucleare, capeggiato dalla Germania, e che annovera anche Austria, Danimarca, Lussemburgo e – sorprendentemente – la Spagna. Ma sulla decisione peserebbe anche la battaglia politica pronta ad essere messa in atto in caso di esclusione del nucleare da parte del blocco dei Paesi favorevoli, Francia, Polonia, Ungheria,  Romania, Slovacchia, Repubblica Ceca e Slovenia.  La Francia, che assumerà la Presidenza del Consiglio Europeo in Gennaio, voterà in Aprile per le elezioni presidenziali, e una decisione dell’Europa ostile al nucleare potrebbe indebolire il candidato europeista Macron. Anche dal punto di vista economico, sebbene l’inclusione del nucleare potrebbe deludere investitori tedeschi e austriaci, potrebbe d’altro canto attirare ben più consistenti investimenti dagli Stati Uniti, dall’Australia, dalla Cina o dal Canada, dove il nucleare gode di reputazione di gran lunga migliore. Di fronte dunque ad un’Europa spaccata politicamente e ad un bilanciamento incerto dei vantaggi e degli svantaggi economico-finanziari, ecco che diventa molto probabile una decisione aderente ai pareri tecnici forniti dagli organismi incaricati, che sono tutti largamente favorevoli all’inclusione del nucleare. Senza contare che nessuno dei membri della Commissione in carica è noto per aver mai espresso posizioni apertamente anti-nucleari, a cominciare da Ursula von der Leyen. Anzi, Thierry Breton, commissario al mercato interno, si è più volte espresso a favore del nucleare. L’inclusione del nucleare infine potrebbe essere anche parte di una trattativa di scambio per l’inclusione, almeno temporanea, del gas naturale. L’interesse verso il gas naturale è infatti trasversale ai due blocchi che si contrappongono sul nucleare (Germania, Polonia e Italia vi puntano decisamente per la transizione energetica), e sebbene il gas naturale sia una fonte fossile che difficilmente può considerarsi sostenibile sotto molteplici aspetti, ha comunque un impatto inferiore del carbone e una rilevanza nel sistema energetico, almeno nel breve tempo, difficilmente ridimensionabile.

Quasi 100 europarlamentari firmano per il nucleare sostenibile

87 membri dell’Europarlamento hanno sottoscritto una lettera indirizzata a Frans Timmermans, Vice-presidente esecutivo per il Green Deal Europeo, Valdis Dombrovskis, Vice-presidente esecutivo per l’Economia a misura d’uomo e ai commissari competenti in materia invocando un pronto inserimento dell’energia nucleare nella Tassonomia europea. Tra i firmatari, di varie nazionalità e partiti politici, figura anche l’italiano Pietro Fiocchi (ECR). Nella lettera si sottolinea come la sfida della decarbonizzazione non possa prescindere dall’uso di tutte le tecnologie adatte a ridurre le emissioni, e dunque i Paesi che hanno intrapreso o vogliono intraprendere la strada del nucleare non dovrebbero essere ostacolati, ma sostenuti in questo proposito. Si nota come il Joint Research Center (JRC), massimo organismo di consulenza scientifica della Commissione Europea, abbia concluso che la fissione nucleare aderisce al principio del “do not significant harm” al pari o meglio di altre tecnologie sostenibili, e come questo giudizio sia stato largamente confermato dalla revisione del rapporto affidata ad altri due organismi indipendenti (Article 31 e SCHEER). Questi pareri si aggiungono a quello dell’IPCC delle Nazioni Unite, che da tempo vede nell’energia nucleare uno strumento imprescindibile per la mitigazione del cambiamento climatico. I firmatari auspicano dunque che la Commissione Europea ignori le sirene anti-nucleari (Germania e Austria in testa) e assuma le proprie decisioni su base scientifica, evitando di penalizzare la fonte nucleare, che già oggi costituisce il 40% circa dell’energia a basse emissioni prodotta nell’Unione. Leggi la lettera integrale

Tassonomia EU: il parere dello SCHEER sul nucleare non è conclusivo

Lo Scientific Committee on Health, Environmental and Emerging Risks  (SCHEER) ha completato la revisione del rapporto JRC sulla sostenibilità dell’energia nucleare, in merito alla soddisfazione da parte di quest’ultima del principio del “do not significant harm” (DNSH). Rimarranno però delusi quanti si aspettavano una parola definitiva a favore o contro la sostenibilità dell’atomo, che dal documento non si evince. In primo luogo lo SCHEER, per completare la revisione nei tempi indicati dalla Commissione EU (ovvero entro il 30 giugno), non ha potuto far ricorso ad esperti esterni ed ad una ricerca bibliografica più ampia. Ha dunque dovuto limitarsi all’esame di quanto pubblicato dal JRC, limitandosi a verificare la congruenza e l’adeguatezza degli studi citati e delle conclusioni tratte. Per altro, solo su una parte dello studio, esulando la gran parte di esso dalle competenze specifiche dei membri dello SCHEER (tra i quali figurano prevalentemente biologi, medici e fisici di area medica o statistica). Nel complesso i revisori concordano con le conclusioni generali del rapporto, sebbene indichino alcuni temi che meriterebbero approfondimento. E’ quindi nei dettagli che si evince la diversità dell’approccio nel giudizio sulla fonte nucleare, che riflette verosimilmente anche i diversi mandati istituzionali dei due soggetti. Una delle principali critiche sollevate dallo SCHEER al rapporto JRC riguarda infatti la modalità di investigazione del principio DNSH. Laddove infatti il JRC conclude che non vi è evidenza che il nucleare sia più dannoso rispetto ad altre tecnologie incluse nella Tassonomia, lo SCHEER stigmatizza il fatto che tale affermazione non significa che il nucleare non rechi alcun danno, ovvero che soddisfi il principio DNSH, nel senso in cui questo termine deve essere interpretato secondo il principio di precauzione. Data la natura dello SCHEER, era lecito aspettarsi un maggiore irrigidimento dei suoi componenti sul lato del rischio, vero o presunto. Tuttavia, bisogna riconoscere che il JRC è stato chiamato a fornire un parere sull’energia nucleare nel contesto della Tassonomia, dunque a dare indicazioni chiare sulla maggiore o minore aderenza ai principi della stessa, anche in confronto ad altre tecnologie già incluse nello schema. Se dai dati evidentemente si evince che, rispetto ad un determinato requisito, il nucleare è meno dannoso di un altra fonte considerata sostenibile, non può essere messo in discussione solo il nucleare ma anche l’altra fonte. Per il JRC, ed in definitiva per il decisore politico, ha dunque più senso una risposta comparativa al principio DNSH piuttosto che una assoluta. In secondo luogo vi è il fatto che le evidenze caldeggiate dallo SCHEER e che servirebbero a quantificare in senso deterministico la pericolosità del nucleare (o di qualsiasi altra fonte) non esistono o non possono essere prodotte, in quanto richiederebbero un livello di dettaglio dello studio che spesso supera la significatività dei dati ottenibili. Se infatti ci sono evidenze sugli effetti sulla salute comparati tra diverse fonti (ad es. mortalità o morbosità per unità di energia prodotta), è invece molto difficile effettuare studi accurati che indaghino, per esempio, il numero di tumori di una popolazione che vive vicino ad un impianto nucleare rispetto alla popolazione generale, vuoi perché il campione può essere troppo piccolo, vuoi perché le incertezze sul dato sono troppo grandi, essendo anche difficile ricondurre una patologia ad una singola causa. Similmente, se è facile misurare l’aumento di temperatura delle acque fluviali a valle di un impianto nucleare, è ben più difficile attribuire conseguenze che siano significative dal punto di vista statistico. L’approccio suggerito dallo SCHEER, seppur corretto in linea di principio, potrebbe essere impraticabile, se non addirittura inutile e controproducente. In ogni caso, esse andrebbe applicato a tutte le tecnologie che si vogliono includere nel paniere della sostenibilità, secondo il principio di neutralità tecnologica più volte affermato dalla Commissione EU. Se lo SCHEER concorda che in larga parte i rischi non radiologici legati al nucleare sono confrontabili o inferiori ad altre tecnologie sostenibili, esprime maggiori riserve sui rischi radiologici, sui quali però non si pronuncia nel dettaglio. Una delle obiezioni mosse alla sostenibilità di tali rischi è che il solo contesto normativo non sia di per sé sufficiente alla loro mitigazione, come affermato dal rapporto JRC. Per lo SCHEER si renderebbe necessaria un’attività di verifica e monitoraggio dell’effettiva implementazione delle normative, e la cosa sarebbe ancor più ostica sulle scale temporali di operatività dei depositi geologici dei rifiuti radioattivi. In aggiunta, lo SCHEER stigmatizza il fatto che non vi è alcuna esperienza operativa di simili depositi per tempi così lunghi, dunque tutte le conclusioni del JRC sono basate esclusivamente su teoria e modelli. Verrebbe da dire, che è così per gran parte delle nuove tecnologie legate alle energie rinnovabili (pannelli solari, pale eoliche, batterie, etc.). Non vi è esperienza sullo smaltimento e riciclo su ampia scala dei materiali che li compongono, né sulla sostenibilità economica e sociale della filiera mineraria che li fornisce (come i recenti aumenti dei costi hanno dimostrato), né ancora sugli effetti che una loro elevata penetrazione nelle reti elettriche può avere sulla stabilità e la competitività economica delle stesse. Per non parlare degli effetti ambientali, che data la recente diffusione di queste tecnologie non sono ancora apprezzati compiutamente. Eppure, questa incertezza epistemologica non ha impedito di valutarne positivamente la sostenibilità. Ecco quindi che infine la scelta sulla sostenibilità di questa o quella fonte sarà sostanzialmente politica, auspichiamo basata sui dati scientifici esistenti, e su di una analisi degli stessi scevra da ideologismi.

EU Taxonomy: il parere di revisori inesperti affossa il nucleare agli albori di una delle più gravi crisi economiche dell’ultimo secolo

Il TEG (Technical Expert Group) ha raggiunto il suo verdetto: gli investimenti in fissione nucleare non sono da considerarsi sostenibili e quindi non rientreranno nella EU Taxonomy for Sustainable Finance, lo strumento ideato dalla Commissione Europea per catalogare le scelte finanziarie orientate ad uno sviluppo sostenibile e al contrasto del cambiamento climatico. La decisione era nell’aria sin da quando uscì la prima bozza nel luglio scorso, tanto da aver costretto la Commissione Europea a prendere tempo e attendere i pareri del pubblico e dei portatori di interesse nella consultazione di prassi (si veda ad esempio il documento Sustainable Nuclear Assessment Report redatto da un panel di esperti per la ONG Energy for Humanity). Lo scorso 9 marzo però il TEG ha rilasciato le sue conclusioni finali che, malgrado le evidenze scientifiche, gli studi e pareri ricevuti, sbarrano la strada al nucleare. Conclusioni che, a un’attenta lettura, risultano alquanto contraddittorie e confuse. Da un lato il TEG riconosce il potenziale della fissione nucleare nel fornire energia affidabile a basse emissioni di gas climalteranti, dunque con un’intrinseca capacità di contrasto al cambiamento climatico. Dall’altro però dubita che il nucleare possieda uno dei requisiti chiave della classificazione, ovvero non recare danno significativo (do no significant harm, DNSH) agli altri obiettivi della Tassonomia (evitare inquinamento, avere un ecosistema salubre, tutelare le risorse idriche, favorire riciclo e riuso). Tale affermazione sarebbe motivata dal fatto che non esisterebbero strumenti sicuri per la gestione delle scorie a lungo termine. O meglio, esisterebbero, ma ancora nessun Paese li avrebbe realizzati, quindi è come se non esistessero. Nel contempo il TEG aggiunge (pag. 210 degli Allegati al Rapporto) che la valutazione del nucleare è troppo complessa e più difficile da compiere nel contesto della Tassonomia, auspicando (pag. 211) che la questione sia affrontata in futuro da un gruppo di esperti con competenze specifiche sul ciclo del combustibile nucleare. In definitiva, il gruppo di esperti si è dichiarato inesperto! Vien da chiedersi chi siano dunque questi esperti, 35 membri provenienti dal mondo della finanza, dell’accademia e della società civile, ma i cui nomi non sono resi pubblici. E vien da chiedersi perché la Commissione Europea non si sia fin da subito avvalsa di veri esperti, di cui certo non vi è penuria (basti pensare alla IAEA). A voler poi allargare lo sguardo, appare poi lecito chiedersi quanto i membri del TEG fossero esperti nella valutazione delle altre fonti di energia, alla luce dell’inclusione della produzione elettrica da biomasse e gas (naturale e non) tra le fonti a intrinseca capacità di contrasto del cambiamento climatico (pag. 57 del Rapporto). Se infatti, in termini di DNSH, le evidenze scientifiche della capacità di gestire in sicurezza le scorie nucleari nel lungo termine “presentano dati empirici insufficienti” (cit. pag. 210 degli Allegati al Rapporto), cosa dire dell’effettivo potere climalterante del gas naturale e della neutralità emissiva, della sostenibilità ecologica e della salubrità della combustione di biomasse? Appare evidente che sono stati applicati due pesi e due misure differenti e ancora una volta da parte della Commissione Europea si è persa l’occasione di assumere un approccio tecnologicamente neutro alla questione energetica. In Europa – dove il nucleare costituisce il 20% della produzione elettrica attuale – alcuni produttori di elettricità da fonte nucleare hanno già chiesto alla Commissione Europea di riesaminare tale posizione avvalendosi di un parere tecnico esperto, indipendente e qualificato. Nel momento in cui l’Europa e il mondo intero si affacciano ad una delle più gravi crisi economiche dell’ultimo secolo, menomare un’industria strategica come quella dell’energia nucleare sarebbe un atto autolesionistico privo di senso. La depressione dei consumi e della produzione industriale legata alla pandemia di COVID-2 aiuterà forse a raggiungere gli obiettivi di riduzioni delle emissioni, ma nel lungo termine l’abbandono del nucleare vanificherebbe ogni rigore e ogni sacrificio, come sottolineato anche dall’IPCC nel suo ultimo rapporto.