L’Europa prende tempo ma la crisi energetica morde

Abbiamo atteso fino all’ultimo nella speranza di poter dare ai nostri lettori la bella notizia dell’inclusione dell’energia nucleare nella Tassonomia europea della finanza sostenibile. Eppure gli Atti Delegati, la cui presentazione al Parlamento di Strasburgo da parte della Commissione era attesa entro la fine dell’anno, sono stati, dopo una serie di anticipazione, di volta in volta rinviati. Le ultime indiscrezioni parlano di uno stallo creatosi a causa della mutata posizione del neo eletto governo tedesco, che avrebbe sconfessato accordi precedentemente presi tra Merkel e Macron. Serviranno dunque ancora settimane a raggiungere un accordo e poi passerebbero 4 o 5 mesi per l’entrata in vigore delle norme. Nel frattempo, la crisi energetica che attanaglia il vecchio continente sembra precipitare nell’indifferenza generale del governo dell’Unione, che ancora si illude trattarsi di una crisi temporanea, di pochi mesi, dovuta alla ripresa economica piuttosto che di una crisi strutturale. Ad ogni modo l’ormai certo inserimento dell’energia nucleare nella Tassonomia crea nervosismo negli ambienti antinucleari, con alcuni media italiani che fanno a gara con articoli quotidiani a screditare l’energia dell’atomo, avvalendosi delle motivazioni più strampalate, essendo il nucleare ormai non più attaccabile sotto il profilo tecnico-scientifico, come asseverato da numerosi organismi internazionali. E mentre il blocco anti-nucleare, composto da Danimarca, Germania, Austria e Irlanda mantiene salde le proprie posizioni minacciando azioni legali contro la decisione della Commissione, diversi segnali dimostrano come l’indispensabilità del nucleare sia tutt’altro che un mito. Primo fra tutti l’improvvisa chiusura per manutenzione straordinaria di 4 reattori francesi, che ha causato la perdita del 10% della capacita nucleare transalpina forzando la riattivazione di vecchie centrali ad olio combustibile e carbone, sulla scorta di quanto avvenuto già in precedenza in Italia causa la spinta al rialzo dei prezzi del gas naturale. Ma ci sono anche le notizie positive. Di pochi giorni fa la notizia che il governo olandese ha infatti deciso non solo di mantenere attiva la centrale nucleare di Borssele, ma ha anche stanziato 500 milioni di euro per la costruzione di due nuove centrali da qui al 2025. La Polonia, dove secondo i sondaggi il nucleare incontra il favore del 78% dei cittadini, ha nel frattempo individuato il primo sito dove sorgeranno i nuovi impianti nucleari. La Finlandia ha avviato l’unità 3 di Olkiluoto, il primo EPR del continente, che produrrà a regime circa il 14% del fabbisogno elettrico del Paese. Ma la vera notizia correlata all’avvio del reattore è la dichiarazione di apertura sul nucleare del movimento Fridays for Future finlandese, motivata dal fatto che la crisi climatica costituisce un rischio maggiore delle scorie nucleari. Per chiudere, la Bielorussia ha avviato il caricamento del combustibile nell’unità 2 di Ostrovets, che verrà connessa alla rete nei primi mesi del 2022, affiancando Ostrovets 1, che già produce il 22% dell’elettricità del Paese. La Bielorussia sta nel contempo elettrificando i consumi finali per ridurre sempre più il consumo di gas naturale, e dal 2024 integrerà la propria rete elettrica c on quella della vicina Russia. Anche fuori dall’Europa ci sono stati avvenimenti importanti: il primo reattore di quarta generazione (HTR-PM, un reattore modulare a gas ad alta temperatura) connesso alla rete in Cina (si avete capito bene, un reattore di IV generazione, quelli che secondo i giornali italiani non esistono); la decisione del fondo sovrano del Qatar di investire 85 milioni di sterline per aggiudicarsi una quota del 10% nella controllata di Rolls-Royce che costruirà gli Small Modular Reactors. Non resta che auspicare quindi che le feste portino consiglio e che facciano uscire la Tassonomia dalle sabbie dei contrapposti veti politici, ma soprattutto che insinuino, nel governo Europeo e in quelli dei Paesi membri, un barlume di visione strategica nel campo energetico che non è. più a nostro avviso procrastinabile.    

L’Europa e il Sacro Graal della fusione nucleare

Ripubblichiamo questo contributo del presidente di Associazione Italiana Nucleare, Umberto Minopoli, originariamente apparso sulla rubrica Green&Blue di Repubblica del 14 luglio 2021. E’ davvero lontana la fusione nucleare? La “prova elettrica”, l’allaccio alla rete del primo impianto è prevista tra il 2040 e il 2050. Non è affatto futuribile. Anzi: è una data chiave. In quel decennio, ricordiamolo, si vorrebbe traguardare la decarbonizzazione dell’economia. Sarebbe tutt’altra prospettiva poter contare, a quelle date, sulla dimostrabilità elettrica di una nuova fonte di energia: pulita, priva di scorie, sicura, a buon mercato e, pressoché illimitata. Quasi un graal. Nel 2025, l’impianto  ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor), nella Provenza francese, inizierà il suo esperimento. Dovrà verificare, nella sostanza, che spendendo 50 MW di energia si abbia un guadagno (stabile) di 500 MW. Quindi che una centrale elettrica che usi questo guadagno è fattibile. Ma Iter non è più il solo esperimento di fusione in costruzione. La canadese General Fusion e l’inglese UKAEA hanno annunciato la costruzione, entro il 2035, di un impianto in Gran Bretagna, non solo sperimentale come Iter, ma già dimostrativo, cioè allacciato alla rete. Questo accelera i tempi. Anche perché, a differenza di Iter, nell’impianto inglese entra il capitale privato: la tecnologia del “sole nella bottiglia” diventa sfida di mercato. Ci si investe. E non si trascurino le ricadute tecnologiche della fusione che sono già realtà: vedi l’intesa tra l’italiana ASG (fornitrice dei magneti del reattore di Iter) e l’università giapponese di Chubu per lo sfruttamento della superconduttività nelle reti elettriche di trasmissione. Grazie a Iter e all’annuncio inglese, l’Europa diventa, alla scadenza del decennio della decarbonizzazione (2020/2030) il luogo di elezione della tecnologia energetica, la fusione nucleare, della seconda parte del secolo. Non impressioni il tempo. L’effettivo funzionamento di un reattore di fusione può essere provato solo in un impianto a scala di centrale. Per questo la fase sperimentale di Iter non può essere saltata. È alle dimensioni di scala che vanno verificate le scommesse ingegneristiche del reattore di fusione: stabilità del plasma (produzione di potenza termica aggiuntiva per almeno 60 minuti; effettivo guadagno di energia (fattore Q) nella reazione; tenuta dei materiali alle importanti potenze termiche del reattore. L’Italia avrà una funzione strategica. A Frascati si localizzerà il DTT (Divertor Tokamak Test) una versione gemella dell’impianto ITER (600 milioni di investimenti e 1500 occupati). Servirà a verificare il componente chiave del reattore tokamak (acronimo russo che sta per camera toroidale magnetica): il divertore, la parte del reattore su cui verranno deviati e scaricati i maggiori carichi termici del plasma, il gas di nuclei leggeri (isotopi di idrogeno) che alimenterà la fusione e la produzione di energia. Il DDT di Frascati verificherà i materiali migliori per  sopportare le forti potenze termiche della reazione di fusione. Agli impianti sperimentali di Cadarache e di Frascati, si affiancherà, nel decennio prossimo, la costruzione dei primi due dimostratori: il DEMO del consorzio europeo Eurofusion e quello annunciato dalla cordata anglo canadese. A questi impianti spetterà tradurre le prove fisiche della fusione in prova elettrica: conversione della potenza termica in elettricità. L’Europa, dunque, centro privilegiato della fattibilità della fusione nucleare. È il premio per una scelta tecnologica, fatta decenni fa, che si è rivelata vincente. Il fondamento fisico della fusione nucleare è unico: replicare in reattori artificiali la reazione energetica che alimenta le stelle (sun in a bottle). In essa, due o più nuclei leggeri di idrogeno, in moto in un gas rarefatto (plasma) – alimentato da campi elettrici e contenuto da campi magnetici – vengono forzati (attraverso temperature altissime del plasma) ad unirsi, formando un nuovo elemento chimico (elio) e rilasciando (reazione esotermica) una grande quantità di energia, convertibile in elettricità. Il mondo ha perseguito strade diverse, nei laboratori, per replicare, in forma sicura e controllata, la reazione solare. Oggi siamo, finalmente, agli esiti di tale ricerca: il concepimento di macchine dimostrative, a scala di centrale, che in condizioni di assoluta sicurezza e stabilità, possono generare energia utile. La tecnologia della fusione, ristretta all’inizio ad un gruppo di Paesi (America, Russia, Italia, Gran Bretagna, Germania) è oggi, come la tecnologia spaziale, perseguita da un club assai vasto di Paesi industrializzati. Oltre 35. Le macchine di fusione perseguite sono, fondamentalmente, raggruppate in due tecnologie: quella del tokamak in Europa (estrazione di energia da un plasma caldissimo in rotazione), quella del confinamento inerziale (raggi di luce laser riscaldano sferette di nuclei di idrogeno fondendole) negli USA. La scelta tecnologica europea si va rivelando più vicina alla praticabilità energetica.

Quale destino per il Green Deal Europeo?

Segnaliamo l’analisi di Giuseppe Zollino, Professore di Tecnica ed Economia dell’Energia, Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Padova, sui più recenti sviluppi del Green Deal Europeo, ovvero la strategia energetica a lungo termine che dovrebbe portare l’Europa ad essere ad emissioni neutre a partire dal 2050 nel contesto di una società equa e prospera ed un’economia competitiva. Obiettivi che stridono con alcuni presupposti della strategia stessa, come quello di escludere dal Just Transition Fund, ovvero il fondo destinato a finanziare gli strumenti della strategia, alcune tecnologie come il nucleare e il sequestro di anidride carbonica applicato agli impianti a combustibili fossili. L’analisi integrale, pubblicata sulla rivista Energia, è disponibile qui.

Giornata di studio AIN 2019: la cronaca

Si è svolta il 16 ottobre scorso a Roma l’annuale Giornata di Studio AIN dal titolo: “Decarbonizzazione: il nucleare è un’opzione in Europa?”. La risposta, che rappresenta l’idea di fondo del libro “A bright future: how some countries have solved climate change and the rest can follow” scritto da Joshua s. Goldstein e Staffan A. Qvist, quest’ultimo presente in sala, sembrerebbe essere sì. La necessità di abbattere le emissioni climalteranti e quelle inquinanti associate alla produzione di energia, fino ad azzerarle in un futuro non troppo lontano, è un obiettivo ambizioso ma non impossibile. Tuttavia è necessario puntare con decisione alla riconversione dell’intero settore energetico ( e quello dei trasporti) verso l’utilizzo di tecnologie a basse emissioni. Ed è un dato di fatto che i Paesi che utilizzano il nucleare per la produzione elettrica hanno emissioni più basse, specie quando il potenziale nucleare va a discapito dell’utilizzo di fonti fossili come carbone, gas e olii combustibili. La giornata, che si è aperta con la presentazione del libro da parte di uno degli autori, lo svedese Qvist, ha visto la partecipazione tra gli altri dell’europarlamentare Carlo Calenda, del presidente di Assoambiente Chicco Testa, di Carlo Stagnaro (direttore dell’Osservatorio economia digitale dell’Istituto Bruno Leoni), di Luisa Ferroni (dovente di Impianti nucleari alla sapienza di Roma), di Roberto Adinolfi (ad di Ansaldo Energia) e di Pierluigi Totaro, presidente del Comitato Nucleare e Ragione. Il libro presenta tra gli altri il caso della Svezia, che tra il 1970 e il 1990 ha dimezzato le sue emissioni totali di carbonio e ha ridotto di oltre il 60% le emissioni ad abitante grazie al nucleare, che oggi detiene una quota di circa il 30% della produzione elettrica del Paese scandinavo, cui si affiancano idroelettrico ed eolico, mentre sono virtualmente assenti i combustibili fossili. Al contrario la Germania ha impostato la propria politica energetica sul massiccio ricorso alle rinnovabili intermittenti e sul contestuale abbandono dell’energia nucleare, non riuscendo a scalfire di fatto le proprie emissioni e restando vincolata alla produzione elettrica da carbone e lignite. Quest’ultima scelta – si sostiene nel libro – non è una formula vincente per una rapida decarbonizzazione; mentre lo è l’approccio della Svezia (e di altri Paesi come Francia, Belgio, Stati Uniti) che riconosce la necessità di tutte le fonti a basse emissioni per contrastare i cambiamenti climatici. Tesi questa condivisa dall’AIN. “L’Italia – ha ricordato il presidente Umberto Minopoli – anni fa ha fatto la sua scelta sul nucleare decidendo di chiudere gli impianti e questo ci pone in una situazione più critica rispetto ad altri Paesi che invece hanno mantenuto l’apporto del nucleare alla produzione di energia”. “Puntare tutto sulle rinnovabili non è possibile e non lo sarà ancora per molto tempo perché mancano ancora le tecnologie di accumulo necessarie. Serve quindi il contribuito di fonti come il nucleare, fonti che possano offrire stabilità dell’approvvigionamento. Senza l’apporto del nucleare al portafoglio energetico europeo – ha sottolineato Minopoli – non è possibile raggiungere gli stringenti obiettivi di decarbonizzazione. E noi italiani dobbiamo interessarcene, perché siamo parte dell’Europa e abbiamo capacità industriali e di ricerca che ci permettono di avere un ruolo importante. Oltre al fatto che abbiamo un lascito nucleare (il decommissioning delle centrali, il deposito dei rifiuti radioattivi) di cui occuparci”. Per  Carlo Calenda, già ministro dello Sviluppo economico, “la scelta dell’Italia sul nucleare è stata una scelta sciagurata”, dovuta al fatto che “il nostro Paese prende le decisioni sulla base dell’ideologia e non sulla base della concretezza dei fatti”.  “No so se il nucleare può essere la soluzione – ha aggiunto –certamente parlare oggi di 100% rinnovabili è una cosa senza senso per problemi tecnologici”. Secondo Carlo Stagnaro dell’Istituto Bruno Leoni,  l’Europa dovrebbe preservare la quota di nucleare esistente  e “non parlare più di nucleare francese (o di altri stati, ndr) ma di nucleare europeo in un contesto di reti integrate”. Il presidente di Assoambiente Chicco Testa, si è soffermato sulla difficoltà ancora presente in Italia a parlare di nucleare, per una diffusa cultura della diffidenza alimentata nell’opinione pubblica anche dalle posizioni di alcuni soggetti istituzionali “che dicono cose fasulle” e alimentano paure immotivate. Sulla necessità di una corretta informazione la docente di Impianti Nucleari della Sapienza Luisa Ferroni nota che “Viviamo in un mondo di radiazioni, ma anche studenti universitari al terzo anno del corso di Ingegneria energetica non lo sanno. Bisogna fare in modo che argomenti come la radioprotezione siano affrontati fin dalle scuole elementari. La paura si supera con la conoscenza”. Sulla stessa linea Pierluigi Totaro del Comitato Nucleare e Ragione che aggiunge: “Bisogna abbandonare l’idea che il nucleare in Italia sia un tabù e ripensare a scelte strategiche per il futuro”. Ha concluso i lavori l’intervento di Roberto Adinolfi, AD di Ansaldo Nucleare, secondo il quale “è arrivato il momento di fare un bilancio di 30 anni di uscita dal nucleare” aggiungendo che “di nucleare bisogna continuare a parlare, perché si tratta di un tema attualissimo” e che “creare una cultura nucleare è ‘conditio sine qua non’ per aprire un dibattito fondato non su preconcetti ma su basi razionali”.