Di Umberto Minopoli
Sorprende – e non poco – l’allarmismo dei toni e dei contenuti di un post pubblicato, il 12 settembre, sulla bacheca Facebook del Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Sergio Costa:
“Disapprovo totalmente quello che, se dovesse essere confermato, rischia di accadere in Giappone. Non abbiamo alcun dato certo sull’impatto che quel tipo di scorie provenienti dalla centrale nucleare di Fukushima potrebbe avere sui fondali, sulla flora e sulla fauna marina. Non concordo, a maggior ragione, se questa scelta dovesse essere fatta nell’errato presupposto che essa incida solo localmente, perché i mari e gli oceani sono di tutti. È un nostro bene estremamente prezioso, il mare, dobbiamo difenderlo tutti insieme. Sto seguendo questa vicenda e con gli esperti e tecnici del Ministero siamo pronti a essere a fianco del governo di Tokyo per trovare una soluzione con tecnologie e soluzioni alternative. Sono consapevole delle difficoltà nel gestire questa enorme emergenza ambientale, ma i mari e gli oceani vanno sempre e comunque preservati.”
Tali affermazioni rischiano di alimentare paure infondate.
Facciamo chiarezza. Il Giappone sa bene come stoccare le acque radioattive e lo fa. Si stoccano le acque per poterle decontaminare, depurare e filtrare dei radionuclidi più tossici per l’ambiente. Vengono quindi raccolte in serbatoi che poi, una volta filtrata e decontaminata l’acqua, devono essere svuotati.
Di radioattivo, nelle acque depurate, rimane una concentrazione di Trizio (H3, elemento non filtrabile) pari a 0.5-4 MBq/L (milioni di Becquerel per litro), per un totale di circa 0.76 PBq (Peta Becquerel, 1015 Bequerel).
Il Trizio ha un’emivita di 12 anni, il che vuol dire che ogni 12 anni la sua attività si dimezza, per cui ha una concentrazione molto bassa rispetto ad altri radionuclidi.
Rilasci controllati sono avvenuti prima d’oggi a Fukushima. E avvengono in tutto il mondo. Gradualità del rilascio e l’effetto diluitivo dell’acqua nell’Oceano fanno sì che l’impatto risulti sempre molto limitato.
Si consideri che la radioattività (fondo di radioattività naturale) già naturalmente presente nell’Oceano Pacifico ammonta a più di 8 milioni di PBq. Le sorgenti principali sono il Potassio-40 (7,4 milioni di PBq), il Rubidio-87 (700mila PBq), l’Uranio (22mila PBq), il Carbonio-14 (3mila PBq). Il Trizio (370 PBq) è l’elemento più effimero e meno presente. Nell’ipotesi di rilascio in discussione, la frazione di Trizio nell’Oceano Pacifico aumenterebbe di meno dell’1%. Irrisorio.
Inoltre, il trizio versato subirebbe prima una ulteriore pre-diluizione. La concentrazione di Trizio risulterà così sotto i livelli imposti dalle normative in prossimità del luogo di rilascio.
L’impianto di riprocessamento francese di La Hague rilascia in un anno circa 12 PBq (oltre dieci volte il totale di quanto dovrebbe essere rilasciato da Fukushima).
Il rilascio controllato dalla centrale di Fukushima comporterà livelli di radioattività indistinguibili dal fondo naturale. In ogni caso quella di rilasciare, gradualmente, tutta l’acqua contenuta nei serbatoi è una delle ipotesi di lavoro (assieme all’evaporazione, al sequestro geologico e alla solidificazione).
Se ne parla ora non perché ci sia un’emergenza. Semplicemente: il governo giapponese ha informato il corpo diplomatico presente nel Paese – cosa che avviene ad intervalli regolari – delle prospettive per il decommisionamento definitivo dell’area di Daiichi.
Gli unici a preoccuparsi potrebbero essere eventualmente i pescatori della zona di Fukushima: qualora il rilascio fosse fatto ad un rateo troppo elevato, si troverebbero a fronteggiare livelli di concentrazione del Trizio localmente superiori ai limiti per la vendita del pescato ( che, peraltro, non hanno a che vedere con l’effettiva pericolosità).
Per il resto della popolazione mondiale, si rassicuri il Ministro, si possono escludere impatti sull’ambiente e la salute.
In ogni caso, il Giappone e’ impegnato in un’opera di depurazione e sicurezza ambientale. Non è eticamente elevato creare allarmismo su quest’opera. A cui, qui ha ragione il Ministro, potremmo invece dare un contributo con le nostre aziende.