Riportiamo integralmente l’intervento del Presidente di Associazione Italiana Nucleare, Umberto Minopoli, su Formiche.net
Sessantaquattro membri del Parlamento Europeo hanno sottoscritto un appello alla Commissione Europea perché si consideri, ufficialmente, il contributo del nucleare civile nella strategia del green new. E perché l’energia nucleare entri a far parte delle politiche di incentivi agli investimenti, di sostegno alla ricerca, e di stimolo alla produzione al pari delle altre fonti energetiche low carbon. La stessa richiesta è stata avanzata, al Presidente von der Leyen, ai vice-commissari e al Presidente del Parlamento Europeo, da un Forum di utilities elettriche e dai rappresentanti dell’industria nucleare europea (1 milione e 100.000 addetti).
È ora di rimuovere l’ipocrisia diffusa sul contributo dell’energia nucleare in Europa: considerata indispensabile ma penalizzata nelle scelte di sostegno. Con 108 centrali esistenti ed operative (in tutti i paesi europei tranne l’Italia), il nucleare contribuisce al 26% dell’elettricità prodotta nell’Ue: un terzo dell’intero fabbisogno elettrico. Senza i 119 GWe prodotti dal nucleare, la stessa contabilità delle emissioni di CO2 del continente cambierebbe radicalmente. Come pure la fattibilità e il realismo della transizione energetica in Europa. Già oggi l’Europa è un importatore netto di energia primaria: pur in arretramento (per la debolezza del ciclo economico) i consumi energetici eccedono (per oltre la metà) la produzione. Per coprire questo gap l’Europa spende 400 miliardi l’anno.
È del tutto evidente che nessuna politica realistica di riduzione della dipendenza da fonti esterne, di abbattimento delle emissioni di CO2, di riduzione del contributo delle fonti fossili è ipotizzabile senza, almeno, il mantenimento della quota di produzione elettrica da nucleare nel portafoglio energetico europeo. Semmai, in previsione di una crescita dei consumi sarebbe saggio prevederne l’espansione. Tranne la Germania, che prevede la chiusura dei suoi 8 impianti entro il 2022 ( lo farà?), nessuno dei paesi nucleari europei (GB, Spagna, Svezia, Finlandia, Belgio Olanda) e dei paesi dell’est (Cekia, Bulgaria, Ungheria, Slovacchia, Romania, Slovenia) prevede di cancellare la sua produzione nucleare. Anzi, cresce l’importazione di elettricità da nucleare (17% del fabbisogno europeo) da paesi terzi confinanti ( Russia, Ucraina, Svizzera).
Si finge di ignorarlo, ma in Europa risultano ben 15 impianti nucleari in costruzione per una capacità di circa 14 GWe. L’ipocrisia diffusa è quella di dare per scontato, in Europa, questo contributo indispensabile del nucleare, ma rimuovere o tacere sulle conseguenze che ne discendono in termini di politiche pubbliche di sostegno. Pur essendo impianti con ciclo operativo di vita (40 anni) utile doppio o triplo di ogni altro impianto energetico, fossile o rinnovabile, esistente il 90% delle centrali attive in Europa, in attività (media) ormai da oltre un trentennio, entro il 2035 raggiungerà la data del suo fine ciclo vita. La gran parte di questa flotta di impianti necessiterà, dunque, di essere rimpiazzata. Non sarà possibile farlo senza un cambiamento che riconosca l’eleggibilità degli impianti nucleari, in quanto fonte no carbon, ai sostegni e agli incentivi della transizione energetica. Non solo. Il nucleare va sostenuto, anche, nella prospettiva.
Entro il 2030 la fusione nucleare passerà dalla fase di sperimentazione a quella di dimostrazione della fattibilità. E qui l’Europa ha un ruolo decisivo. Ma, prima di essa, è la frontiera del nuovo nucleare, quello dei piccoli reattori modulari tra i 300 e i 500 MW, intrinsecamente sicuri e “puliti”, a ciclo chiusa del combustibile (senza produzione di scorie), integratori e complementari delle reti di energie rinnovabili, che sta entrando nella fase della fattibilità. Quesito finale: è giusto che l’Italia, fuori dal “vecchio nucleare” (quello dei grandi impianti da oltre 1000 MW) per effetto del referendum del 2011, sia fuori anche dalle innovazioni del futuro e dal “nuovo nucleare”?