La preoccupazione inerente la gestione dei rifiuti nucleari resta a tutt’oggi uno dei fattori che maggiormente alimentano la contrarietà dell’opinione pubblica all’energia nucleare.
Sebbene le tecnologie per lo stoccaggio in sicurezza siano consolidate e gli incidenti che hanno coinvolto rifiuti generati da centrali nucleari si contino sulle dita di una mano e hanno avuto un impatto molto circoscritto e limitato, molte persone ritengono quello delle “scorie” un problema irrisolto che pone un rischio inaccettabile per le future generazioni.
Un buon punto di partenza per una valutazione quanto più possibile oggettiva del problema sono le sue dimensioni.
Per farlo prendiamo l’esempio della Francia, dove circa il 78% dell’elettricità generata è di origine nucleare: una stima di EDF quantifica i rifiuti radioattivi della produzione elettrica in circa 1 kg all’anno per ogni francese. Non tutti questi rifiuti sono ugualmente pericolosi: il 90% di essi infatti è costituito da oggetti e indumenti (quali filtri, valvole, guanti, tute di protezione, etc.) contaminati da radionuclidi a bassa attività e emivita (cioè il tempo in cui la radioattività si dimezza) relativamente breve, non diversi da quelli prodotti da ospedali, centri di ricerca o altre industrie; meno del 10% sono invece rifiuti ad alta attività e lunga emivita (come il combustibile esausto) la cui messa in sicurezza richiede maggiori accorgimenti, come vedremo nel seguito.
Secondo un inventario della IAEA, a livello globale fino al 2013 sono state prodotte circa 370 mila tonnellate di rifiuto ad alta attività e lunga emivita, di cui circa 120 mila sono state riciclate.
Ogni anno una centrale nucleare di 1GW di potenza produce 25-30 tonnellate di questo tipo di rifiuti. Per confronto, una centrale a carbone di pari potenza produce ogni anno 200 mila tonnellate di ceneri, 200 mila tonnellate di zolfo e 7 milioni di tonnellate di CO2.
Il rifiuto nucleare ha una caratteristica speciale rispetto ad altri tipi di rifiuti: la sua pericolosità diminuisce con il trascorrere del tempo, fino ad esaurirsi raggiungendo i livelli dell’uranio presente in natura. A seconda del radionuclide considerato, questo intervallo di tempo può variare dalle poche ore alle decine di migliaia di anni.
Un’emivita lunga abbinata ad un livello di attività elevato implica che il radionuclide in questione è potenzialmente nocivo per tempi più lunghi: ad esempio le barre di combustibile esausto presentano livelli di attività letali in caso di contatto ravvicinato anche a 10 anni dall’estrazione dal reattore.
Di conseguenza, tali tipi di rifiuti, denominati di seguito per brevità HLW (dall’acronimo inglese per High Level Waste) devono essere tenuti in ambiente controllato e isolato per centinaia di migliaia di anni, oppure trattati per ridurne la radioattività o riciclati.
Le barre di combustibile esausto, una volta estratte dal reattore, vengono lasciate a raffreddare in apposite piscine presso la centrale per un periodo di tempo variabile, in genere da alcuni anni alle decine di anni. In queste piscine continuano a dissipare calore e l’acqua che le circonda è sufficiente a schermarne le radiazioni.
Una volta che il combustibile esausto si è raffreddato, per esso si aprono due strade: il condizionamento e l’avvio ad un deposito di stoccaggio oppure il riprocessamento ed il riciclo come nuovo combustibile.
La prima strada è la più comune, essendo gran parte dei reattori commerciali esistenti di tipologia “once-through” ovvero inadatti a usare combustibile riciclato.
Il condizionamento consiste nel trattare il combustibile esausto per separare ulteriormente i materiali che lo compongono in base al livello di radioattività, quindi isolare il rifiuto HLW, che è solido, in una matrice stabile ed in un contenitore sigillato, a prova di perdite per centinaia di migliaia di anni.
Esistono molteplici forme per il condizionamento, ma le più comuni sono la cementazione e la vetrificazione: il rifiuto radioattivo, ulteriormente compattato in volume, viene miscelato con una matrice (cemento o vetro) che lo renda stabile e immobile, quindi rinchiuso in un contenitore multistrato, che può essere di ceramica, di cemento e acciaio o di altri materiali, che lo isoli dall’ambiente esterno per tutto il tempo necessario al decadimento della radioattività a livelli non potenzialmente nocivi. Questi contenitori, che comunemente vanno sotto il nome di dry casks, vengono poi stivati in depositi controllati, in attesa di essere inviati al sito finale, quale il deposito geologico. I contenitori non son solo studiati per essere resistenti alla corrosione e a possibili perdite del materiale che contengono, ma anche ad ogni manomissione o danneggiamento dall’esterno, persino all’impatto di un aereo o di un missile.
Il deposito temporaneo (a medio termine) spesso si trova presso la centrale nucleare stessa, è può essere in superficie o di poco sottoterra.
Il deposito geologico (a lungo termine) – il primo Paese a dotarsene sarà la Finlandia a partire dal 2024 – si trova invece a profondità di circa 500 metri sottoterra, in ambienti geologicamente stabili e al di sotto della falda acquifera, dove il rifiuto passerà il resto della sua esistenza senza nuocere all’ambiente circostante e alla salute umana.
Il riprocessamento consente invece di ottenere nuovo combustibile da quello esausto, oltre a ridurre di molto sia l’attività sia la quantità del rifiuto da smaltire in via definitiva. L’energia ancora contenuta nel combustibile esausto infatti è molto elevata (oltre il 95% dell’energia iniziale), il che lo rende particolarmente adatto a riciclo.
Solo una piccola parte dei reattori commerciali ad oggi impiegati sono in grado di riciclare combustibile, ma non per una limitazione tecnologica. Questa tipologia di reattori infatti esiste dagli albori della storia nucleare, ma, paradossalmente, l’abbondanza e l’economicità dell’uranio minerario, unitamente a preoccupazioni legate alla proliferazione di materiale di potenziale uso bellico (uno dei prodotti del riprocessamento è infatti il plutonio, che può essere utilizzato a scopi militari), hanno limitato la loro diffusione.
Al mondo esistono sette impianti di riprocessamento, operativi o in costruzione, il più grande di essi si trova in Francia, a La Hague – ed ha una capacità di 1700 tonnellate annue.
Parte dei rifiuti nucleari italiani sono stati riprocessati nell’impianto di La Hague, contribuendo ad alimentare i venti reattori nucleari francesi che usano combustibile riciclato in una quota pari al 30%.
La Russia ad oggi ricicla appena il 16% del proprio combustibile esausto, ma l’obiettivo è quello di arrivare al 100% nel 2030.
Gli Stati Uniti invece, per scelta politica legata all’argomento della proliferazione, non hanno mai intrapreso la strada del riprocessamento, anche se questa opzione potrebbe essere interessante in futuro, con l’avvento sul commercio di reattori avanzati.
Se nel medio termine lo stoccaggio temporaneo in superficie è una soluzione sicura, lo smaltimento finale in depositi geologici profondi è comunemente ritenuto l’opzione migliore per il lungo termine.
La scelta di un sito centralizzato dove ogni Paese smaltisca i rifiuti nucleari è un processo lungo e complesso, che richiede oculate scelte tecniche e un deciso supporto politico e sociale all’infrastruttura.
Il fallimento è sempre possibile, come l’esperienza americana di Yucca Mountain dimostra.
Ipotesi alternative al deposito centralizzato tuttavia esistono, come l’idea della Deep Isolation, che permetterebbe di usare perforazioni simili a quelle in uso nell’esplorazione geotermica e degli idrocarburi per creare dei depositi profondi decentralizzati, magari vicino ai siti nucleari stessi.
Per approfondire:
https://www.nrc.gov/reading-rm/doc-collections/fact-sheets/radwaste.html#waste
https://www.iaea.org/topics/spent-fuel-management
https://thebreakthrough.org/articles/beyond-yucca-mountain
https://www.edf.fr/en/the-edf-group/producing-climate-friendly-energy/nuclear-energy/our-expertise/radioactive-waste