Il governo tedesco ha recentemente innalzato gli obiettivi di decarbonizzazione, puntando alla riduzione delle emissioni del 65% al 2030 e anticipando la neutralità climatica di 5 anni (dal 2050 al 2045).
La legge appena introdotta, pur non dettagliando la roadmap del dopo 2030, prevederebbe uno schema di prezzi differenziato per fonti fossili e tecnologie low carbon come rinnovabili e auto elettriche, volto ad incentivare ulteriormente l’abbandono dei combustibili fossili non solo nei trasporti ma anche nel riscaldamento.
Secondo alcune fonti la nuova legge potrebbe comportare costi aggiuntivi per circa otto miliardi di euro nel solo 2022, la metà dei quali finirebbe per pesare sui clienti residenziali.
Già a partire dal 2020 però anche gli industriali tedeschi, che fino ad ora hanno sostenuto solo limitatamente il peso economico della transizione energetica, avevano cominciato a paventare la perdita di competitività delle industrie tedesche, che potrebbero essere schiacciate dal differenziale di prezzo tra i Paesi vicini, Francia nucleare inclusa, e la Germania.
Sul successo dell’Energiewende infatti pesano ancora molte incognite: oltre all’effettiva capacità di penetrazione delle rinnovabili in un mercato che mostra già segni di saturazione, gli imprescindibili lavori di ammodernamento della rete di distribuzione, che secondo le stime comporterebbero una spesa di 79 miliardi di euro da qui al 2030 (1.5 miliardi solo nel 2020) e che trovano inoltre molta resistenza da parte delle comunità interessate dai progetti. L’imminente uscita definitiva dal nucleare e la possibilità che un nuovo governo a guida Verdi possa anticipare l’uscita dal carbone a prima del 2038, mettono il futuro del sistema energetico tedesco ancora più sotto pressione.
Da qui la proposta dei rappresentanti delle industrie energivore tedesche di fare leva sulle istituzioni comunitarie per un prezzo unico europeo dell’energia per il comparto industriale.
Una simile mossa avrebbe l’effetto di scaricare i costi di scelte politiche interne alla Germania, quale l’uscita dal nucleare, sugli altri Paesi membri dell’Unione, ed è facile immaginare che sarebbe difficilmente digeribile da Francia, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, tanto per citare alcuni tra i maggiori interessati.
Alle ambizioni delle grandi industrie tedesche fa in qualche modo eco la proposta di Matthias Miersch, esperto di energia per il partito SPD, il quale ha recentemente proposto che la Germania si faccia promotrice a Bruxelles dell’istituzione di un aggravio del prezzo dell’energia da fonte nucleare, simile, almeno nello schema, a quello istituito per la CO2, al fine di includere nel prezzo “gli immensi costi e i rischi di futuri dell’energia nucleare”. Poco importa che questa azione sarebbe in palese contrasto con il pronunciamento del Joint Research Center, secondo il quale l’energia nucleare è sostenibile al pari delle fonti rinnovabili.
Anche questa proposta sarebbe indirizzata a creare una distorsione del prezzo da fonte nucleare a diretto vantaggio delle rinnovabili, dunque del sistema tedesco.
Come osservato da diversi commentatori – tra i quali citiamo Rauli Partanen, analista energetico e scrittore finlandese – la Germania ha scelto consapevolmente la sua strada verso la decarbonizzazione e, assieme ad altri Paesi, ha alimentato a livello europeo politiche antinucleari.
Tuttavia sarebbe inaccettabile imporre ad altri Paesi di pagare il prezzo di queste scelte, mentre potrebbe essere molto più efficace, in termini di equilibri di prezzo a livello europeo, lasciare liberi i Paesi che intendono perseguire la strada del nucleare, in quanto l’abbondanza di fonti a basse emissioni abbasserebbe nel contempo il prezzo della CO2, agevolando in questo modo indirettamente anche la transizione tedesca.