Venerdì 14 agosto alle ore 18.30 il gestore della rete californiana (CAISO) ha lasciato al buio milioni di utenti in quanto le riserve di capacità erano troppo basse per garantire la stabilità della rete. Le cause dirette del black-out imposto sono da ricercarsi nella indisponibilità di 1250 MW di capacità andati fuori servizio in concomitanza con un’intensa ondata di calore.

E’ la seconda volta in meno di un anno che la California sopporta un black-out: in ottobre, per evitare incendi boschivi, due utilities attuarono un black-out programmato.

A ben vedere però i black-out sono una delle facce della medaglia di una politica energetica e climatica che ha puntato tutto sulle rinnovabili, forzando la chiusura di centrali nucleari e di centrali a gas. L’energia solare ricopre ormai un ruolo preponderante nel mix di produzione della California, e al tramonto, proprio quando la domanda aumenta, migliaia di MW di capacità solare vanno a zero.

Come se non bastasse, uno studio pubblicato dalla Pacific Gas & Electric Company, disegna un quadro ancor più inquietante per il futuro, prevedendo un raddoppio della frequenza dei black-out nei prossimi 15 e una loro quadruplicazione nei prossimi 30 anni, a meno di non intervenire sulla rete di distribuzione con pesanti investimenti di ammodernamento.

Questi investimenti dovrebbero aggiungersi ai costi già di per sé esorbitanti che gli utenti californiani hanno dovuto sopportare per rendere possibile la transizione verso le fonti rinnovabili: il prezzo del kWh in California è cresciuto di sei volte rispetto al resto degli Stati Uniti nel periodo 2011-2019. Anche per questo motivo il governatore Newsom non si è assicurato l’importazione di elettricità extra dagli stati confinanti, cosa che avrebbe probabilmente scongiurato i black-out, ma imposto ulteriori aumenti al prezzo dell’elettricità.

Anche la politica anti-nucleare della California non ha aiutato: fosse stata ancora operativa la centrale di San Onofre, chiusa prematuramente nel 2015, il black-out sarebbe stato scongiurato, dal momento che la sua capacità era doppia rispetto alla potenza in difetto sulla rete. La chiusura di Diablo Canyon, programmata per il 2025, non potrà che acuire il problema, riducendo ulteriormente la potenza di carico di base disponibile sulla rete.

Paradossalmente, se la California avesse speso 100 miliardi di dollari in energia nucleare piuttosto che nel solare e nell’eolico, oggi avrebbe abbastanza elettricità per rimpiazzare tutte le fonti fossili.

Le centrali nucleari esistenti, posizionate sulla costa, sono più vicine ai centri urbani dove la domanda è localizzata, a differenza dei grossi impianti solari nelle zone interne, che richiedono lunghe linee di trasmissione (spesso causa di incendi boschivi) per soddisfare la domanda.

Le difficoltà di quest’estate sono state acuite da un fattore climatico facilmente prevedibile, ovvero un’area di alta pressione che ha causato assenza di vento (quindi di produzione eolica) e alte temperature (quindi elevata domanda). Sole e vento raramente si complementano a vicenda, e la situazione non migliorerà in inverno, quando la produzione solare cala. Né i costosi tentativi di accoppiare crescenti capacità di stoccaggio alla produzione solare potranno alleviare i problemi se non sulla scala temporale di alcune ore.

Incuranti delle crescenti difficoltà in cui versa, alcuni esponenti del Partito Democratico elevano la California ad esempio nazionale.

E dire che gli esempi alternativi non mancano: il piano strategico dell’Arizona Public Service, la più grande utility elettrica nel Copper State, prevede il raggiungimento dell’obiettivo zero emissioni nel 2050, combinando tutte le fonti a basse emissioni disponibili, ovvero rinnovabili e nucleare. La centrale nucleare di Paolo Verde infatti produce più elettricità di qualsiasi altra centrale elettrica in America (oltre 32 miliardi di kWh all’anno) e il 40% in più della centrale idroelettrica di Grand Coulee, benché quest’ultima abbia il doppio della capacità nominale.

Con il nucleare nel proprio portafoglio, l’utility dell’Arizona produrrà il 65% di elettricità da fonti a basse emissioni già tra 10 anni.

A questo punto è lecito chiedersi che lezione l’Europa, e l’Italia in particolare, debbano trarre dalla California: sono i black-out programmati il futuro che ci attende? Il rischio c’è, anche se non è dietro l’angolo. Per ora il Paese europeo con le politiche più simili alla California è la Germania, la cui transizione energetica, parimenti costosa e non indolore, è però lungi dall’essere compiuta, dal momento che i tedeschi non sono intenzionati a rinunciare al carbone come spina dorsale della loro produzione elettrica per ancora molti anni, come pure non hanno intenzione di rinunciare al gas naturale, il “salvatore” delle rinnovabili, in quanto fornisce rapido back-up alle loro carenze.

L’Italia dal canto suo ha una strategia energetica saldamente imperniata sul gas naturale e il portafoglio rinnovabile del nostro Paese vede ancora preponderante la fonte idroelettrica, di gran lunga meno capricciosa di solare ed eolico.

Nel 2003, distacchi programmati interessarono il nostro Paese per concomitante elevata domanda, basse importazioni e ridotta produzione idroelettrica: allora la produzione solare ed eolica erano agli albori.

Tuttavia i consumi elettrici pro-capite in Italia sono tre o quattro volte inferiori a quelli della California. Se, come previsto, i consumi dovessero aumentare complice l’elettrificazione di trasporti e climatizzazione invernale, anche l’Italia dovrebbe attentamente pianificare fino a che punto le rinnovabili intermittenti possono possono coprire in sicurezza il nostro fabbisogno elettrico. L’equilibrio tra sicurezza degli approvvigionamenti, costi della rete, livello di emissioni e altre considerazioni ambientali non è scontato, e se il nostro obiettivo è azzerare le emissioni, la fonte nucleare non può essere scartata a priori, non senza essere consci dei sacrifici che tale scelta comporterebbe, e che la situazione in California ci pone dinnanzi agli occhi.