Biden punta a decarbonizzare il settore elettrico nel 2035, ma la chiusura di centrali nucleari negli USA non si arresta.

In occasione della Giornata della Terra che ricorre il 22 aprile, il presidente americano Biden ha rilasciato una dichiarazione con la quale rilancia gli obiettivi climatici degli Stati Uniti, di recente rientrati nel consesso dei firmatari degli Accordi di Parigi.

Il presidente americano promette un sostanziale taglio delle emissioni di carbonio entro la fine di questo decennio, pari al 50-52% rispetto al 2005.

Gran parte di questa riduzione dovrà essere coperta dalla totale decarbonizzazione del settore elettrico, prevista a partire dal 2035.

Nelle intenzioni della Casa Bianca gli USA faranno ricorso a tutte le tecnologie disponibili, dalle rinnovabili alla cattura e sequestro del carbonio (CCS), passando per il nucleare.

Per il settore nucleare in particolare l’amministrazione USA promette di far leva sulla flotta esistente, assicurando il prolungamento della vita operativa in condizioni di sicurezza ambientale e dei lavoratori e di giustizia sociale. Il nucleare inoltre dovrebbe contribuire alle emissioni del settore industriale e dei trasporti, affermandosi come fonte di produzione di idrogeno.

Le dichiarazioni di Biden sono state accolte con favore nel consesso internazionale, con il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Guterres, tra i primi a complimentarsi per gli ambiziosi obiettivi che la nuova amministrazione USA si pone.

Tuttavia non è tutto oro quel che luccica. Esattamente due giorni prima Joe Manchin, Presidente della Commissione per l’Energia e le Risorse Naturali presso il Senato americano, si è rivolto al presidente con una lettera contenente un accorato appello per salvare la flotta nucleare americana dalla chiusura prematura.

Nell’ultimo decennio infatti il numero di reattori negli USA è sceso da 104 a 94, e un totale di 5.1 GW di capacità sarà disconnessa solo nell’anno 2021.

Il nucleare produce negli USA circa il 55% dell’energia low-carbon, evitando l’emissione di circa 500 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno.

Senza un cambio di passo nella politica energetica, metà della flotta sarà disconnessa dalla rete entro il 2030. Tale evenienza non solo comprometterebbe il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione, ma avrebbe anche serie implicazioni sulla sicurezza della rete elettrica, sulla sua resilienza agli eventi estremi e sulla continuità dell’approvvigionamento elettrico.

Un caso emblematico, che sta sollevando in questi giorni resistenze nell’opinione pubblica a livello locale ed internazionale, è la chiusura della centrale di Indian Point, nello stato di New York. La chiusura del terzo (e ultimo) reattore è prevista per il prossimo 30 aprile, e segue di un anno la chiusura del reattore 2. Eppure, le due unità insieme generavano l’81% dell’energia pulita nella parte meridionale dello stato (che include New York City) e la loro uscita di scena equivale, in termini di elettricità prodotta, a 2.5 volte l’apporto combinato di solare e eolico nello stato, una differenza che sarà difficile da colmare se non con il ricorso ai combustibili fossili.

Le centrali nucleari esistenti costituiscono un fondamentale contributo alla decarbonizzazione a costi irrisori (in quanto l’investimento è stato già ripagato). Ci auguriamo che l’amministrazione Biden se ne renda conto prima che sia troppo tardi, al di là dei proclami e delle dichiarazioni d’intento.

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