Una vicenda, a tratti, curiosa quella del Deposito Nazionale e Parco Tecnologico (DNPT) per lo smaltimento e la gestione di tutti i rifiuti radioattivi italiani.

Dopo circa due anni e mezzo di ritardo sulla tabella di marcia (prevista per fine agosto 2015), pare in dirittura d’arrivo, finalmente, da parte dei ministeri interessati (Sviluppo Economico e Ambiente) il Nulla Osta a Sogin per la pubblicazione della Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee (CNAPI) ad ospitare il Deposito, dando così inizio alla procedura di consultazione pubblica, che potrà portare all’individuazione del sito.

La Sogin, la società pubblica responsabile del mantenimento in sicurezza e dello smantellamento degli ex siti nucleari italiani e operatore nazionale, insieme a Nucleco, per il trattamento e lo stoccaggio dei rifiuti e delle sorgenti radioattive, potrà quindi procedere alla pubblicazione della Carta dei Siti e del Progetto preliminare del Deposito e del connesso Parco tecnologico. Con questo atto si avvierà, formalmente, la fase della consultazione pubblica sul progetto e la sua possibile localizzazione.

E’ previsto, per legge, un calendario assai dettagliato di coinvolgimento di istituzioni locali, cittadini, ordini professionali, categorie, imprese, associazioni di settore. Solo al termine del calendario di consultazione e dopo le manifestazioni di interesse da parte delle Amministrazioni Pubbliche coinvolte, si prevede una formale selezione di siti candidati su cui si apriranno ulteriori verifiche di idoneità fino alla decisione sul sito autorizzato. Si tratterà di una campagna di consultazione e di dibattito pubblico che non ha precedenti nella storia dei grandi interventi infrastrutturali nell’esperienza italiana. E che è modellata (persino con passaggi in più) sulle esperienze del public debate, nei grandi paesi europei, su temi analoghi.

Si tratterà di una procedura, di informazione e confronto pubblico, sin troppo rispettosa di un coinvolgimento dal basso dell’opinione pubblica e opposta a quella, tristemente fallimentare, di Scanzano Jonico del 2003.

Perché quella del deposito centralizzato dei rifiuti radioattivi è una vicenda curiosa o, anzi meglio, paradossale? Innanzitutto per un aspetto: si tratta non solo di un’opera necessaria, indispensabile e urgente. Ma, innanzitutto, obbligata.

L’Italia è l’unico paese europeo (con un lascito nucleare) che non si è ancora dotata o non si sta dotando di un sito, unico e adeguato, di smaltimento dei rifiuti radioattivi. I depositi nucleari definitivi in Europa sono circa 30 (e di varie tipologie). L’Italia è l’unico paese ad non esserne dotato. I nostri rifiuti e sorgenti radioattive (utilizzate diffusamente per usi medici, industriali o di ricerca) sono distribuiti in siti temporanei ( circa 21 tra siti Sogin e di altri), ormai saturi e non dotati delle qualifiche e delle caratteristiche necessarie ad ospitare definitivamente ( per un lasso temporale di 350 anni) i rifiuti radioattivi, fino al loro decadimento naturale.

Per questa mancanza, che ormai data sugli impegni italiani di oltre 20 anni, il nostro paese è in palese contraddizione con le Direttive europee. E, palesemente, in procinto di procedura di infrazione. Il secondo paradosso è che, all’apparenza, nessuno si oppone formalmente alla costruzione di un deposito definitivo delle scorie e dei materiali radioattivi esausti.

Il deposito italiano dovrà ospitare definitivamente circa 75 mila metri cubi di rifiuti a bassa attività e stoccare (temporaneamente) circa 15 mila metri cubi di rifiuti ad alta e media attività. Nessuno può, ragionevolmente, sostenere che tali quantità vanno mantenute nella condizione attuale: distribuite in siti di deposito temporanei e pertanto inadeguati allo smaltimento definitivo o ospitati all’estero (rifiuti ad alta attività), a costi salatissimi, dai paesi (Francia e Inghilterra) che hanno realizzato per noi il riprocessamento del combustile nucleare esausto derivante dall’attività delle nostre centrali non più operative. Per obblighi internazionali, oltre che contrattuali, questi materiali ad alta attività dobbiamo reimpatriarli.

E, per obblighi internazionali e contrattuali, dobbiamo indicare il sito attrezzato ove localizzarli temporaneamente (in attesa di definitivi depositi geologici che, si presume, potranno essere di tipo sovranazionale su territori europei, per quelle nazioni che non detengono ingenti quantitativi di rifiuti di tale tipologia e non prevedono di produrne in futuro). Non va dimenticato che restano allocati in Italia, in condizioni di provvisorietà, quantità residue di combustibile e materiali ad alta attività in attesa di riprocessamento all’estero o di sistemazione definitiva in sicurezza. L’assenza del deposito nazionale condiziona, pesantemente, tempi e modi di questa sistemazione. Come condiziona, è elementare intuirlo, tempi e modalità dello smantellamento definitivo della nostra eredità nucleare (ex centrali, ex fabbriche del combustibile, reattori di ricerca ormai esauriti). Come condiziona, è ovvio, la sistemazione dei rifiuti e delle sorgenti nucleari esauste derivanti da un uso crescente degli isotopi radioattivi in campo sanitario (diagnosi e terapie oncologiche), in agricoltura, in ricerca e in numerosi usi industriali.

C’è un nucleare diffuso, utilizzato in modo crescente in campo sanitario e industriale (la denuclearizzazione è un mito inconsistente) che richiede anch’esso un sistema sicuro e adeguato di stoccaggio dei rifiuti. C’è una assoluta disinformazione alimentata sui rifiuti e le scorie nucleari. A differenza del combustibile nucleare in attività, che presenta vari livelli di rischio, affrontati dalle soluzioni ingegneristiche negli impianti nucleari attivi, gli elementi radioattivi (rifiuti e scorie) una volta fuori dai reattori e stoccati in modo conforme a criteri di confinamento, ormai standardizzati, non presentano alcuno dei rischi che, comunemente, si attribuiscono alle scorie nucleari. Immobilizzate nei contenitori adatti di sicurezza quelle ad alta attività, o nelle matrici materiali e barriere ( ben 4 saranno quelle del deposito nazionale) utilizzate per separare le scorie dall’ambiente, quelle a bassa attività; la radioattività è un processo lento, direi pedante e confinato, di decadimento dell’energia in eccesso dei materiali radioattivi che non ha alcuna possibilità di rilascio esterno di emissione di radioattività.

E’ sorprendente e inspiegabile la distorsione comunicativa che circonda il concetto di “scoria nucleare”. Il cui rischio è assolutamente teorico, nei processi di stoccaggio standardizzati, e imparagonabile alla realtà di impatto ambientale di ogni altro tipo di rifiuto tossico, chimico, industriale o derivante dalla combustione nei processi energetici convenzionali (carbone, petrolio ecc).

Il terzo paradosso è quello economico. Il Deposito Nazionale sarà, di gran lunga, la più grande e qualificata infrastruttura singola degli ultimi decenni. L’investimento complessivo è di circa 1,5 miliardi di euro (700 milioni in infrastrutture esterne e interne, 650 milioni in progettazione e costruzione e 150 milioni per il parco tecnologico). L’occupazione prevista è di 1500 addetti l’anno, per 4 anni, nella costruzione e di 700 per l’esercizio.

L’investimento è finanziato dalla componente A2 della tariffa energetica. Ma si tratta, in gran parte, di tariffa che va a sostituire quelle attuali per il mantenimento in esercizio di sicurezza degli impianti nucleari disattivati che si ritarda a smantellare. E, quota parte, è ripagata dai costi di conferimento dei rifiuti nucleari crescenti in ambiti non energetici (sanità, industria, agricoltura, ricerca ecc).

Insomma il deposito nucleare ha tutte le caratteristiche di un buon e positivo affare, utile e necessario a detta di tutti e, persino, senza problemi di compatibilità finanziaria. Perché non si fa?

UMBERTO MINOPOLI
Presidente dell’ Associazione Italiana Nucleare

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